venerdì 12 novembre 2010

The Social Network

Anno: 2010
Regia: David Fincher
Distribuzione: Sony Pictures

Piuttosto inaspettatamente David Fincher racconta con “The Social Network” una storia di solitudine estrema.

Nel 2004 Mark Zuckerberg ha l’intuizione di inventare una pagina web in cui confrontare e votare le ragazze più belle di Harvard. Nel giro di poche ore, il sito ha talmente tanti accessi da mandare in tilt tutto il sistema di connessione dell’università e Mark diventa famoso. Il giovane decide così di sviluppare quell’idea, espanderla, evolverla e trasformarla in Facebook, il sito internet più cliccato al mondo. Le battaglie legali per la paternità dell’idea non mancheranno…

La splendida pellicola di David Fincher è una specie di “tribunal film” con protagonisti dei giovani ventenni miliardari e agguerritissimi. Tra flashback e lotte legali con il coltello tra i denti, il film procede “fluidissimo” e senza impacci mostrando l’ascesa del futuro miliardario Zuckerberg. E indubbiamente, in questo aspetto, sta anche la forza del film: quello di riuscire a tratteggiare l’ambiguità del protagonista. Un nerd, un vero disadattato, un asociale che ha cambiato radicalmente il concetto di “amicizia” creando una cosa che ne semplificasse il valore rendendolo accessibile anche (e forse soprattutto) a quelli come lui. E’ la voglia di rivalsa a muovere il personaggio. E’ la rabbia, senza mezzi termini, a motivarlo. Questi sentimenti lo porteranno a tentare il colpaccio alle spese di amici (pochi) e conoscenti (molti).

Non sappiamo dire se l’attore che dà il volto a Zuckerberg, Jesse Eisemberg, appaia così inespressivo per scelta o per incapacità. A ogni modo la sua caratterizzazione appare convincente. Bravo anche Justin Timberlake nel ruolo del papà di Napster: una vera chicca.

“The Social Network” è film costruito su diversi piani, e questo è sicuramente il suo punto di forza. Fatto di numerosi strati significativi che ne amplificano il valore e ne complicano la lettura, anche filmica, il lavoro di David Fincher appare come un’analisi distaccata e profonda più dell’uomo “facebook” che dell’oggetto. Non dà giudizi di sorta, ma lascia intendere chiaramente la pena che prova nel vederlo da solo davanti alla scrivania.

Diego Altobelli (11/2010)

Unstoppable - Fuori controllo

Anno: 2010
Regia: Tony Scott
Distribuzione: 20th Century Fox

Il cinema di Tony - Anthony - Scott ha ormai da tempo preso una deriva, potremmo dire, “popolare”. Spieghiamoci. Esaurite le idee sulla serie spy-story, e finiti gli esperimenti cinetici con protagonisti cacciatrici di taglie (“Domino”) o ex guardie del corpo alcolizzate (“Man on Fire”), ora il regista di cult come “Top Gun” e “Spy Game”, da qualche tempo si è messo alle prese con l’America post 11 settembre. Quella che vede come protagonisti persone umili (pompieri, autisti, controllori, ecc.) al centro di situazioni di panico. Il precedente “Pellham 123 – Ostaggi in metropolitana” in qualche modo si potrebbe definire come un antefatto, un prequel ideale di questo “Unstoppable – Fuori controllo”. Abbiamo infatti lo stesso protagonista, l’attore feticcio Denzel Washington; abbiamo una ambientazione similare, lì la metropolitana, qui i treni; e abbiamo persino una struttura narrativa che, volendo essere pignoli, Tony Scott ricalca pedissequamente ormai da una decina d’anni, con rare variazioni sul tema. Parliamo in questo caso della cosiddetta “storia commentata”: praticamente intendiamo un film in cui non solo vediamo ciò che sta accadendo, ma vari personaggi esterni alla vicenda, la commentano come fossero a un talk show, spesso osservando a loro volta la situazione da un televisore.

In “Unstoppable – Fuori controllo” abbiamo tutto questo. Due personaggi, attori bravi ma francamente poco credibili nel ruolo come Washington e il giovane Chris Pine, si ritrovano a essere l’ultima speranza di fermare un treno in corsa finito per errore umano accidentalmente fuori controllo. Naturalmente non mancano i cliché del genere: il treno in questione trasporta materiale altamente tossico / infiammabile, viaggia contromano ed è diretto a tutta velocità verso un quartiere altamente popolato di famigliole felici. Il panico sale, ma non in sala…

Il problema è che Tony Scott propone un soggetto fuori tempo massimo per i film d’azione di oggi. Il suo “Unstoppable” poteva andar bene dieci, forse anche venti anni fa, ma adesso appare più che altro come il riciclo stanco di idee già viste. Il protagonista corre sui vagoni, c’è la coppia di incapaci che mandano tutto in malora, c’è l’ ex marine che fallisce nel tentativo di salvare tutti, il capo delle operazioni è un inetto, e la bella di turno (Rosario Dawson) – guarda un po’ – è intelligente e sa pure ammiccare. Insomma la sagra del già visto. Anche la regia, in questo caso, non è poi così convincente come molti film precedenti. Tony Scott poteva fare anche film dal soggetto “traballante” (pensiamo allo stesso “Domino” o “Deja Vu”), ma innegabilmente li confezionava con una regia di carattere. Idee visive chiare, espressioni della sua idea di Cinema. In questo caso la sua mano appare un po’ più stanca, meno ispirata che del solito. Realizza così un film che ha di buono solo l’idea che sono le persone comuni a trainare la Storia. Non quella di Hollywood, ma quella del Mondo.

Diego Altobelli (11/2010)

mercoledì 10 novembre 2010

Lake Mungo

Anno: 2008
Regia: Joel Anderson

Se state cercando un film - un po' horror un po' documentario - che vi lasci esterrefatti, allora "Lake Mungo" è ciò che fa per voi.

Australia, 2005. La storia incredibile della famiglia Palmer, travolta dalla morte della più giovane di casa, Alice, vittima di un incidente durante una gita al lago. I genitori e il fratello elaborano il lutto; finiranno per scoprire segreti incoffessati...

Al suo esordio come regista di un lungometraggio (suo soltanto un corto del 2002) Joel Anderson firma un mockumentary non solo intrigante, ma anche decisamente intelligente. Questo perchè "Lake Mungo" sfrutta con grande mestiere un tema piuttosto abusato nella storia del cinema: la casa infestata, e lo rielabora portando all'estremo quella che, sulle prime, appare come una banalissima storia di fantasmi. Difficile, per chi scrive, non anticipare nulla della trama, anche perchè così facendo si rovina molto della sorpresa (fortissima) che si ha vedendo il film. Il punto, volendo stringere il cappio, è che "Lake Mungo" raccontando i fatti attraverso la tecnica del documentario (con i presunti protagonisti della vicenda che parlano per interviste), va a toccare corde inaspettate. Nell'alternarsi di foto e filmati inquietanti, si finisce per parlare dell'elaborazione del lutto; di segreti nell'adolescenza; della famiglia intesa, però, come nucleo assente, e non presente, nella vita di tutti i giorni di una giovane ragazza.

Non è Alice a mancare, sembra suggerire il documentario, ma la famiglia stessa. Assente il giorno della scomparsa, assente prima, e assente dopo il fattaccio: alla continua ricerca di una identità. Una eterna corsa per un riconoscimento da parte di quella figlia che, pur facendone parte, sembra esserne estranea. E' l'adolescenza, con i suoi misteri e i suoi fantasmi che attendono solo di essere scoperti.

In una Australia cinematograficamente sempre interessante ("Lake Mungo" è l'ennesima produzione indipendente) Joel Anderson è disturbante, inquietante e un po' sadico. E "Lake Mungo" è un gran film.

Diego Altobelli (11/2010)

martedì 9 novembre 2010

Grotesque (Gurotesuku)

Anno: 2009
Regia: Koji Shiraishi

Koji Shiraishi è regista che ha un passato di cinema horror. Suoi film come "Carved" (2007) o "Noroi" (2005), alcuni dei quali poi ripresi da registi occidentali (si pensi proprio a "Carved" e all'italiano "Smile" del 2009). Con "Grotesque" Shiraishi propone la sua idea di torture porn, estremizzando il fattore splatter (che qui raggiunge punte notevoli), ma forse lasciandosi prendere troppo la mano.

Due giovani al loro primo appuntamento vengono aggrediti da un pazzo. I due malcapitati si risvegliano legati a una tavola di legno di uno scantinato, e lì subiranno torture di ogni tipo...

In "Grotesque" non c'è niente che giustifichi il gesto o la dimensione dell'orrore che stiamo vedendo. Tutto è ridotto all'osso e privo di senso: trama essenziale, dialoghi deliranti (sia del maniaco che delle vittime), scene di amputazioni (dagli arti al sesso) senza filtro... Dimentichiamoci quindi l'ipocrisia narrativa di un "Hostel", in cui ti affezioni a un personaggio per poi "godere" nei momenti in cui questo viene torturato. Scordiamoci la falsità registica di talune produzioni occidentali, che gioca con lo splatter facendoti vedere solo "quello che si può mostrare in una società civile". Tutte sciocchezze, sembra dire Shiraishi, qui c'è l'orrore. Nel film dei due giovani non gliene frega niente a nessuno e anzi, la loro innocenza - "grottesca", per l'appunto, e molto "giapponese" - che li porta a credere (su un lettino e mutilati di vari arti) della bontà del loro carnefice, alla fine spinge lo spettatore a "tifare" per il maniaco.

Ovvio, è tutto simbolico, ma purtroppo la regia di Shiraishi non è all'altezza degli intenti. Nel suo "Grotesque" si evince la volontà di criticare il sistema sociale giapponese (con la scena, fortissima, della masturbazione a schizzo), o persino la storia del Paese (nel finale una musica patriottica commenta il delirio sanguinolento), con una operazione che echeggia i capolavori dei connazionali Koji Wakamatsu o Takashi Miike. Il punto è che la tecnica di Shiraishi non raggiunge quegli standard qualitativi e il suo lavoro - interessante ma televisivo - viene invece interpretato come una scopiazzatura di altri torture porn, occidentali e non.

Diego Altobelli (11/2010)