venerdì 18 dicembre 2009

La principessa e il ranocchio

Anno: 2009
Regia: Ron Clements e John Musker
Distribuzione: Buena Vista

Con La principessa e il ranocchio la Walt Disney Pictures torna a raccontare una favola a “due dimensioni”. Mettendo (momentaneamente) da parte i progetti tridimensionali e l’animazione in CGI, la Disney racconta una favola a misura di bambino che riserva anche qualche sorpresa.

Tiana è una giovane ragazza di New Orleans che si divide tra turni massacranti di lavoro da cameriera. Ma Tiana ha un sogno: quello di aprire un ristorante tutto suo, in memoria del padre scomparso. Un giorno, a New Orleans arriva uno squattrinato principe che un perfido stregone voodoo trasforma in un ranocchio. Quando a una festa Tiana e il ranocchio si incontrano, il secondo insiste per essere baciato e poter tornare umano. Tiana cede, ma si ritrova lei stessa una ranocchia…

John Musker e Ron Clements, creatori di Aladdin e La sirenetta, dirigono un film a ritmo di jazz e blues. Le musiche, mai invasive, tornano quindi ad accompagnare la visione, prendendo sottobraccio il giovane spettatore e ipnotizzandolo (alla vecchia maniera) con luci e colori sfavillanti.

La principessa e il ranocchio, allora, diventa una pellicola del ricordo, un omaggio a un certo modo di intendere l’animazione che oggi è decisamente fuori tempo. Impossibile sfuggire, quindi, alla retorica sul cambiamento dei tempi. Della principessa bionda e in attesa del bel principe ormai non v’è traccia. La bionda sì, ma è alla ricerca più che altro del “buon partito”… altro che vero amore! Per quanto riguarda la principessa, invece, oggi è una giovane di colore squattrinata che amerà il suo ranocchio anche se non sarà mai principe. E alla fine il sogno idilliaco del “Vissero per sempre felici e contenti” odora di amarezza per i sogni infranti e il tempo che fu.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2136

Astro Boy

Anno: 2009
Regia: David Bowers
Distribuzione: Eagle Pictures

Finalmente, Astro Boy!

Dal maestro Osamu Tezuka che lo concepì nel lontanissimo 1952 in forma di manga (dando vita al fumetto giapponese come oggi lo si intende), trasformandolo poi nel primo Anime della storia nel 1963, arriva al cinema il lungometraggio dedicato al piccolo Tetsuwan Atom, aka Astro Boy.

Metrocity, in un futuro non troppo lontano. Il geniale professor Tenma è sconfortato dalla morte prematura del figlio Toby. Per colmare la mancanza, Tenma realizza un cyborg a immagine e somiglianza di Toby. Quando però il cyborg apre gli occhi, dimostra di avere una coscienza e una volontà proprie. Nel tentare di conquistare l’amore sincero del suo creatore, il robot diventerà l’eroe della città…

Un po’ Metropolis. Un pizzico di Pinocchio. Osamu Tezuka agli inizi degli anni Cinquanta aveva già preso quanto di meglio la fantascienza e la narrativa potesse allora offrire. Il suo Astro Boy ha il merito indiscusso di aver dettato le regole per il manga. Occhi grandi, tavole chiare, tematiche adulte attraverso un linguaggio semplice. Asto Boy divenne il Mickey Mouse giapponese. Osamu Tezuka, invece, da quel momento venne soprannominato “dio dei manga”. Questa incarnazione cinematografica del suo Tetsuwan Atom è efficace, ma non certo priva di difetti. Si sente, evidentemente, l’assenza di una casa di produzione “forte” come potrebbero essere la Dreamworks o la Pixar, e si avverte un certo squilibrio nel gestire all’americana un soggetto intimamente giapponese. Scenari un poco spogli e “statici”, animazione epica, ma allo stesso tempo macchietistica. David Bowers alla regia (dopo essere stato “aiuto” in Giù per il tubo), del resto, fa del suo meglio per non far sentire queste mancanze. Realizza una storia rocambolesca e piuttosto complessa, ma ben raccontata e cosparsa di elementi avvincenti. In particolare molto buona risulta proprio la crescita caratteriale di Astro, che da bambino abbandonato (echeggiando anche A.I. –Intelligenza artificiale), diventa un eroe consapevole della propria storia.

Buono, lasciando da parte i pregiudizi del caso, anche il doppiaggio. La voce di Silvio Muccino (a sorpresa) risulta molto adatta al personaggio di Astro, mentre quella di Carolina Crescentini (nel ruolo dell’amica umana Cora) doveva essere forse meno rigida. Bravi anche quelli del Trio Medusa che fanno il minimo indispensabile… fortunatamente! Certo, perchè nella versione originale il pubblico poteva godere delle voci di Kristen Bell, Nicolas Cage, Samuel L. Jackson, Charlize Theron e Bill Nighy, ma considerando quanto sentito in passato negli adattamenti italiani (qualcuno si ricorda Shark Tale?) direi che poteva andare molto peggio.

Insomma, il piccolo Astro Boy ce l’ha fatta anche questa volta. Forse non vincerebbe in un confronto diretto con le “grandi”, ma siamo certi che riuscirebbe comunque ad arrivare in piedi alla fine del match e a esclamare: “Ehi, non mi hai ancora sconfitto!”.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-Astro_Boy_Il_bambino_di_ferro-3429.html

Io e Marilyn

Anno: 2009
Regia: Leonardo Pieraccioni
Distribuzione: Medusa

Se nel 1972 Woody Allen si faceva aiutare da Humphrey Bogart in Provaci ancora, Sam, nel 2009 Leonardo Pieraccioni si fa aiutare dal fantasma di Marilyn Monroe a riconquistare l’ex moglie. Ma questa volta l’idea (non originalissima) del regista toscano si perde un po’ per strada.
Firenze. Durante una seduta spiritica fatta per gioco Gualtiero Marchesi, da poco divorziato dalla moglie Ramona, richiama il fantasma di Marilyn Monroe. Lei, allora, si piazza nella vita dell’uomo e finisce per consigliarlo sul come riconquistare Ramona che nel frattempo si è legata a Pasquale, un “magnetico” lanciatore di coltelli. Non tutti i consigli della “old star” però, si riveleranno efficaci…

Gradevole commedia romantica che potrebbe dare del filo da torcere ai consueti cinepanettoni annuali. Quest’anno Pieraccioni appare più malinconico del solito e, forse, è proprio la natura dolce amara della pellicola a convincere maggiormente. Il regista toscano non rinuncia alla cifra stilistica fatta specialmente di divagazioni all’acqua di rose sulla vita e sull'amore, ma realizza al contempo un film che fila via leggero leggero, delicato, quasi impalpabile. Io e Marilyn strappa via così più di un sorriso ed è merito anche del cast: da Biagio Izzo a Rocco Papaleo, da Francesco Pannofino a Luca Laurenti, fino a Francesco Guccini, tutti affiatati a mai invasivi. La scena dello spettacolo è lasciata tutta al capocomico che fa largo uso delle proprie capacità istrioniche. Spassosa, a riguardo, la guerra dei dialetti con Biagio Izzo.

Tirando le somme. Pieraccioni realizza un film quindi certamente modesto, ma migliore delle ultime sue pellicole perché più ironico e surreale. Peccato che non sia riuscito a sfruttare fino in fondo l’idea originale. La Marilyn di Pieraccioni infatti, a differenza del Bogart di Allen, non darà nessun vero consiglio risolutore al protagonista, e invece di essere "musa ispiratrice" finisce per perdersi nell’identità di un mero meccanismo comico.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Io_e_Marilyn_Musa_ispiratrice__mancata-4036.html

Amelia – La leggenda, l’amore e il mistero

Anno: 2009
Regia: Mira Nair
Distribuzione: 20th Century Fox

La regista Mira Nair (Kama Sutra, 1996 e Moonsoon Wedding, Leone d’Oro a Venezia 2001) racconta la storia affascinante di Amelia Earhart, prima donna aviatrice a girare il globo su un aeroplano.

Amelia – La leggenda, l’amore e il mistero racconta proprio l’esistenza della leggendaria aviatrice appassionata e visionaria. Dopo aver attraversato l’Atlantico in aeroplano, Amelia Earhart diviene per tutti un punto di riferimento e una icona. Di libertà, di coraggio e di emancipazione femminile. Poi, nel 1937, decide di affrontare la sfida più dura: attraversare il mondo in solitaria…

Racconto accorato, ma privo di mordente. Qui, in sostanza, tutta l’essenza di Amelia - La leggenda, l’amore e il mistero, un film che malgrado il coinvolgimento di due attori di “grosso calibro” non riesce a trasportare lo spettatore in volo. La regia noiosetta di Nair non catalizza l’attenzione, ma la colpa non è da ricercare nelle sua direzione, quanto forse nella sceneggiatura: troppo concentrata sulle conversazioni tra i due protagonisti che sui voli della stessa Earhart.

D’altro canto, a interpretare la celebre aviatrice troviamo Hilary Swank, qui in veste anche di produttrice esecutiva. E la sua interpretazione, sospesa tra grazia e forza, rimane comunque impalpabile. Al suo fianco un Richard Gere al sapore di melassa gli tiene testa, ma purtroppo pare scimmiottare personaggi da lui già interpretati decine e decine di volte.

Insomma, malgrado la regia “impegnata” di Mira Nair, Amelia è un film da consigliare alle estimatrici del bel Gere, e da recuperare tutt’al più a noleggio. Non crediamo, infatti, che nei cinema trovi molti passeggeri pronti a partire con lui.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-Amelia_Un_volo_a_planare-4069.html

venerdì 11 dicembre 2009

Dragonball Evolution

Anno: 2009
Regia: James Wong
Distribuzione: 20th Century Fox

Destino ingrato quello che perseguita le pellicole tratte da Manga e Anime famosi. Infatti, i cosiddetti "live action" risultano spesso approssimativi, il più delle volte grossolani, e recitati sempre senza cognizione di causa. Questa tendenza viene confermata soprattutto quando sono gli americani ad accaparrarsi i costosi diritti del fumetto di turno. Accadde nel lontano 1995 con l’inguardabile "Fist of the North Star" (aka "Hokuto no Ken", meglio noto in Italia come "Ken il guerriero"), venne ripetuta con l’ambizioso "Crying Freeman" di Cristophe Gans, e oggi avviene con il film ispirato alla celeberrima graphic novel di Dragonball a cui arbitrariamente è stato aggiunto il sottotitolo di "Evolution".Siamo certi che di quello che è stato fatto Akira Toriyama, il famosissimo autore del manga, pretenderà delle spiegazioni.

Il diciottenne Goku è un giovane imbranato che si divide tra gli allenamenti di arti marziali impartiti dal nonno Gohan e gli impegni della scuola. Un brutto giorno, Gohan viene attaccato da una killer al servizio del malvagio alieno Piccolo. Goku, rinvenuto il corpo senza vita del nonno, parte all’inseguimento del malvagio tiranno, ma l’unico modo che ha di sconfiggerlo è rintracciare le leggendarie sette sfere del drago capaci, quando raggruppate, di esaudire qualunque desiderio...

Giudicare approssimativo "Dragonball Evolution" diretto da James Wong (regista di "Final Destination" e "The One") sarebbe come fargli un complimento. Senza voler tediare il lettore elencando le numerose differenze visive e narrative del film rispetto al manga, basta dire che la pellicola di Wong risulta "tirata via" come poche altre cose viste al cinema negli ultimi dieci, forse anche venti anni. Per avere un’idea dello scempio compiuto da regista, cast e produzione, bisogna ripensare a film come "Capitan America" del 1992, al primo live action dei "Fantastici quattro" o, andando ancor più indietro con la memoria, ai film anni Settanta dedicati all’Uomo Ragno. In quei prodotti, come in questo, i plot e le linee narrative del trend a cui si ispiravano venivano stravolte a favore di una non condivisibile re-interpretazione del regista. Nel caso di questo Dragonball, inoltre, abbiamo delle aggravanti che non possono passare sottosilenzio. La prima è naturalmente il costoso budget di cui comunque Dragonball dispone rispetto a quelle pellicole; la seconda è la non considerazione di un miglioramento tecnico e stilistico che i film tratti dai fumetti hanno avuto dallo "Spider-Man" di Sam Raimi sino a oggi; infine, la presenza di un cast di attori mai così palesemente svogliati come in questo caso. A questo proposito basti dire che persino Chow Yun-Fat, che per la cronaca fu protagonista di kolossal come "Anna and The king", riesce a risultare digeribile descrivendo un maestro Tartaruga (chi ha letto il manga sa a cosa ci riferiamo) fumoso e senza peso.

Insomma lapidario è il giudizio: "Dragonball Evolution" risulta inconcludente e fondamentalmente privo di senso. Da qualunque lato della sala lo si guardi. No, il fatto che il prodotto sia indirizzato a un pubblico di giovanissimi non è un attenuante.Semmai, una ulteriore aggravante.

Diego Altobelli (04/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/dragonballevolution.htm

Leggi qui la recensione la recensione a Moviesushi

Disastro a Hollywood

Anno: 2009
Regia: Barry Levinson
Distribuzione: Medusa

Tratto dal romanzo "What Just Happened: Amare dal fronte di Hollywood" scritto da Art Limson, "Disastro a Hollywood" è una commedia irriverente sullo sfondo dello star system americano.

Ben è un produttore cinematografico che, a causa dell’imminente presentazione di un suo film alla Mostra del cinema di Cannes, vive due settimane infernali. Deve vedersela infatti con un regista troppo artista per essere compreso, le idee perbeniste della executive producer, una moglie traditrice e un attore che non vuole tagliarsi la barba per interpretare il suo prossimo film...

Il regista Barry Levinson ci propone il meccanismo narrativo del cinema dentro il cinema, inflazionato, a dire il vero, sin dai tempi di "Hollywood Party". Pur avendo firmato sceneggiature di successo come "Good Morning Vietnam" e "La tempesta perfetta", Levinson invero non ci presenta una pellicola particolarmente originale. Le varie trovate comiche, infatti, come la scena del funerale, o i momenti (più spassosi) in cui gli attori interpretano se stessi, in realtà sanno molto di già visto. Inoltre, la rarefatta malinconia che si respira nel sottotesto filmico, non basta a donare al film quella profondità cui probabilmente voleva ambire.

Bravissimi gli interpreti, per un film che forse vale la pena vedere effettivamente solo per loro. Sean Penn e Bruce Willis nei panni di loro stessi appaiono divertiti come in poche altre occasioni. Le signore Robin Wright Penn e Catherin Keener spalleggiano Robert De Niro con grande classe. Ma è proprio quest’ultimo, infine, a lasciare il segno. Mai così istrionico, De Niro firma una delle sue migliori interpretazioni in un film spassoso, ma a conti fatti piuttosto scontato.

Diego Altobelli (04/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/whatjusthappened.htm

Whisky

Anno: 2004
Regia: Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll
DIstribuzione: Kitchen Film

Diretto a quattro mani da Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll, "Whisky" è una commedia caratterizzata da toni decisamente poco allegri. Un humour stentato e silenzioso dirige un trio di attori stanchi e poco vitali, come voluto dalla sceneggiatura.

La storia narra le gesta di Jacobo che, venuto a sapere della visita a sorpresa di suo fratello Herman, chiede a Marta, la sua devota assistente di una fabbrica di calzini, di fingere di essere sua moglie. Lei accetta di buon grado, ma l'arrivo di Herman è destinato a segnare le loro vite...
Film stantio e soporifero, senza mezzi termini; una trama anche interessante se non fosse che per tutta la durata del film non succede quasi niente. Il "quasi" è giustificato da un piccolo colpo di scena sul finire del film. Sorpresa che però non cambierà né i toni sommessi della pellicola, né l'interpretazione dei personaggi, né ancora il giudizio purtroppo piuttosto negativo del film.
"Whisky" vorrebbe risultare interessante in un epoca in cui le commedie cinematografiche hanno ritmi e toni decisamente diversi dai suoi. Toni terribilmente lenti, stanchi, e privi di qualunque tipo di verve umoristica. Fattori che uniti a una recitazione quasi assente, una trama svogliata, e una regia più attenta a ripetersi che non a evolversi, rendono la pellicola letteralmente noiosa.Peccato.

La colonna sonora è, tra l'altro, quasi assente, con un unico momento in cui la musica, cantata da una ragazzina in un albergo di quart'ordine, riesce a risollevare in minima parte un lungo momento di silenzio cinematografico.Dialoghi anch'essi stanchi, privi di umorismo, stantii e lenti.
Sì, capiamo che tutti questi elementi erano voluti, ma davvero non si possono considerare interessanti.

Diego Altobelli (2004)
estratto da http://filmup.leonardo.it/sc_whisky.htm

giovedì 10 dicembre 2009

Ninja Assassin

Anno: 2009
Regia: James McTeigue
Distribuzione: Warner

Quando videogame e manga si incontrano sul grande schermo, può capitare di trovarsi di fronte a ibridi come questo "Ninja Assassin", diretto da James McTeigue già regista del buon adattamento di "V for Vendetta".

Raizo è un orfano trasformato da bambino in spietato assassino dal clan Ozunu. Quando però le dure regole del clan condannano a morte una persona molto vicina a Raizo, quest’ultimo decide di tradire il gruppo. Raizo, inseguito e braccato dai suoi vecchi compari, si ritroverà coinvolto in una guerra tra gang di stampo mafioso...

Chiarito che il riferimento iniziale a videogame o fumetti è solo un pretesto per scoprire la natura mordi e fuggi di Ninja Assassin, bisogna dire che la regia di McTeigue questa volta si abbandona totalmente all’azione più sfrenata, concedendosi più di una incursione nel vero e proprio "splatter". Il che si traduce visivamente in smembramenti, squartamenti, amputazioni e una pioggia di sangue praticamente ininterrotta dall’inizio fino ai titoli di coda. Da leccarsi i baffi, insomma.

Il ritmo tachicardico, inoltre, asseconda una sceneggiatura a intrecci scritta dalle abili mani di J.M. Straczjnski, in questa sede decisamente influenzato dal trascorso nel mondo dei comic. Il risultato però non soddisfa. Personalità stereotipate e soluzioni già viste spalleggiano i dialoghi che vorrebbero apparire impegnati (della serie: "Ne resterà solo uno", modello Highlander), ma che invece risultano assai buffi e a volte persino fuori contesto.

Rimane il soggetto, allora, affascinante e intrigatante, basato com’è sul mito antico dei guerrieri ombra. Ma è troppo poco. Senza neppure degli attori efficaci, si finisce per grattarsi la testa davanti un mare di sangue un po' spaesati e con la voglia di ripescare Van Damme, Dolph Lundgren, Steven Seagal e compagnia bella.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/ninjaassassin.htm

L'uomo nero

Anno: 2009
Regia: Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribuzione

Potrebbe essere interpretata come una pellicola di ritorni il nuovo lavoro di Sergio Rubini – regista dal titolo L’uomo nero. Ritorno di temi, come l’ossessione per l’arte, di territori, la Puglia, di luoghi, la stazione (luogo in cui era ambientata la prima pellicola di Rubini), e di attori, Sergio Rubini e Riccardo Scamarcio al loro secondo lavoro insieme. E parte da un ideale ritorno anche la trama, strutturata in un lungo flashback.

Puglia. Gabriele Rossetti, al capezzale del padre morente, rivive la propria infanzia. Torna indietro con la memoria e rievoca le ossessioni del genitore per l’arte di Cézanne, la simpatia per lo zio che lo consiglia in “amore”, e la paura suscitata dall’ombra di un inquietante Uomo Nero. Rivivendo la propria fanciullezza, Gabriele comprenderà le origini delle sue angosce da adulto…

Verrebbe da dire che ancora una volta Sergio Rubini pecca di ingordigia. A una prima analisi L’uomo nero sembra l’ennesimo film in cui il regista di Tutto l’amore che c’è condensa troppi validi elementi. L’arte, l’amore, la passione, il conflitto psicologico, vari intrecci e vari personaggi, la realtà storica della trama (Puglia, anni Sessanta), l’ossessione per lo sguardo. Questa volta però, Rubini riesce a mantenere integro il filo del discorso. Se Colpo d’occhio (pellicola che la critica non gli ha perdonato) appariva pretenzioso nel ruolo di thriller psicologico, L’uomo nero torna a muovere corde più idonee al regista: quelle della commedia dolce amara. Rubini inoltre riprende il fare introspettivo del suo Cinema insieme alle motivazioni vagamente biografiche che lo hanno sempre mosso. Intimo e suggestivo, con L’uomo nero il Cinema di Rubini ritrova quella onestà intellettuale che in Colpo d’occhio pareva essergli sfuggita di mano.

Alla riuscita del film collabora attivamente anche l’eccellente cast. Sergio Rubini fa (a ragione) la voce grossa, ma Riccardo Scamarcio (che nel film è il disinvolto zio Pinuccio) lo eguaglia, convincendo il pubblico che nei ruoli “adulti” da’ il meglio di sé. Nessuna novità invece per Valeria Golino: come al solito, al tempo stesso efficace e sfuggente.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-L_uomo_nero_Ritorno_alle_origini_allontanando_le_ombre-3877.html

A serious man

Anno: 2009
Regia: Ethan e Joel Coen
Distribuzione: Medusa

Annichilente rappresentazione dell’esistenza umana. I fratelli Coen questa volta ci vanno giù pesante e con A serious man firmano quello che può tranquillamente essere definito come il loro capolavoro. Sicuramente, il lavoro più personale e intimo della loro filmografia.

Preparatevi, signore e signori. Quello che state per vedere è un film che non concederà nulla allo spettatore. Dimenticatevi cose come l’immedesimazione e il coinvolgimento. Dimenticatevi l’happy ending. Esiste solo il racconto, la diegesi. Esiste solo la catarsi. Ebbene, godetene. Si spengono le luci e Joel e Ethan Coen (come fanno sempre nel loro Cinema) immergono a forza la testa dello spettatore in una immaginaria bacinella d’acqua dove confluiscono le immagini. Poi gridano: “Apri gli occhi!”. Gridano: “Guarda!”. Se avete visualizzato quanto scritto, potreste avere un’idea vaga della potenza di A serious man, una pellicola che avvicina i registi di Non è un Paese per vecchi allo stato dell’Arte.

In A serious man il protagonista è Larry Gopnik, e guardandolo verrebbe da dire: l’apoteosi dell’uomo fuori posto e fuori dal tempo. Da tutti i tempi. In procinto di divorziare, con dei figli che gli rubano soldi e fumano spinelli, con un capo al lavoro che preferisce ascoltare le lamentele di gente sconosciuta piuttosto che fidarsi di lui… A Larry succede di tutto e in poco tempo. Però lui ha un unico fine nella sua vita: essere una persona seria. Disciplinata. In qualche modo “logica” come la materia che insegna: la fisica. Per riuscirci chiederà aiuto a vecchi rabbini…

Claustrofobico fino all’esaurimento, con un ritmo “adagio”, alla ricerca continua di uno scossone, di una smossa e di una svolta, A serious man descrive la vita com’è. Senza fronzoli, senza divagazioni divertite e senza speranze. E la comicità, quando fa capolino nel racconto, è cinica e grottesca, nerissima. Come a dire: si ride per non piangere.

Il racconto dei Coen è “kafkiano” perché narra dell’impossibile incontro tra Larry e l’Assoluto, ovvero la soluzione ai suoi problemi: Dio. I Coen affondano quindi le mani nella religione ebraica e la chiave di lettura per il loro film è tutta lì. In una religione basata sull’attesa. Sulla non-reazione. Quale divertimento? Piuttosto utopistiche speranze. Incomprensibili rituali e formule che confluiscono nel linguaggio Yiddish e nella Cabala. Insomma, l’Incomprensibile è oggi fuori tempo massimo, suggeriscono i Coen, e cercare di dargli un senso è fatica sprecata. Esiste solo il Caos.

Nel film dei Coen non c’è niente, eppure c’è tutto. Critica sociale, critica religiosa, critica culturale. Con tutti i limiti dell’Uomo messi in mostra sul grande schermo per essere "sezionati". Freddo, distaccato, difficile. Un rompicapo? No, un autentico capolavoro.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-A_Serious_Man_I_fratelli_omaggiano_il_Caos-3891.html

Magari le cose cambiano

Anno: 2009
Regia: Andrea Segre
Distribuzione: Off!Cine

Il giovane regista di Come un uomo sulla Terra e Mal’ombra torna al Cinema per parlare di emarginazione con Magari le cose cambiano, pellicola “indipendente” che riserva più di una sorpresa.

Neda è una “romana de roma” cresciuta negli anni Sessanta nel centro storico della Capitale, poi trasferitasi (più per necessità che per voglia) nel quartiere di Ponte di Nona, alla periferia di Roma a sei chilometri dal Grande Raccordo Anulare. Il documentario di Andrea Segre segue i pensieri e i ricordi di Neda e di Sara, una ragazza di diciotto anni, per denunciare l’abbandono edilizio e civico di un quartiere che voleva assurgere al ruolo di “nuova centralità”...
Presentato da Nanni Moretti in persona, il documentario di Andrea Segre riesce a far riflettere e, al tempo stesso, a divertire.

Il primo affondo l’abbiamo a circa un quarto d’ora dall’inizio della pellicola quando, nel continuo lamentarsi di quanto la situazione del quartiere sia abbandonata a se stessa, la testimonianza “fortuita” di una anziana signora rimette tutto in discussione. Persino le intenzioni iniziali di denuncia dello stesso documentario! Un film a rischio caduta, quindi? Nient’affatto. Magari le cose cambiano dimostra, al di là delle intenzioni più o meno riuscite e più o meno perseguite coerentemente, un’anima autenticamente popolare. E’ un film che fa parlare la gente, il popolo, la periferia, convincendo il pubblico delle loro ragioni. Un risultato affatto scontato.
Non mancano le incursioni nella denuncia di una certa politica (viene preso di mira l’Immobildream che “non vende sogni ma solide realtà”), e si avverte in generale un vago senso di smarrimento, come se il regista non sapesse di preciso quali direzioni prendere. Così com’è Magari le cose cambiano è quindi un film sicuramente impulsivo e a cui si finisce per voler bene, ma lontano, purtroppo, anche da quell’accuratezza cui il regista ci ha già abituati.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Magari_le_cose_cambiano_In_attesa_di_essere_visto_-3912.html

Senza amore

Anno: 2009
Regia: Renato Giordano
Distribuzione: Rai Cinema

Il regista Renato Giordano tenta il salto in lungo (passando come regista dal teatro al cinema) con una pellicola dedicata a un tema scottante e scomodo. A pochi giorni dalla notizia del maltrattamento da parte di due “maestre” nei confronti di bambini di pochi anni, Giordano presenta Senza Amore: film sulla pedofilia e sull’incapacità dei grandi di ascoltare i più piccoli.

In una piccola realtà vive Luigi, un bambino con alle spalle una famiglia ai margini della società. Il bambino, già con un carattere chiuso e senza amici, palesa atteggiamenti di insofferenza nei confronti del prossimo. Un giorno nella sua vita entra un uomo, un vigile, una persona qualunque che dimostra per lui un attenzione quasi paterna. Ben presto però la sua presenza si farà molto ingombrante…

Sembra un piccolo film chiuso in se stesso. Un po’ come il personaggio che racconta. Questo potrebbe essere il difetto maggiore che si evidenzia in Senza amore, ma anche la sua principale caratteristica. La regia di Renato Giordano, apprezzato autore di numerose commedie di teatro, appare influenzata dagli insegnamenti della scena. Un film che tratta un tema così scottante avrebbe avuto bisogno di quella incisività registica che a Giordano sembra essere mancata. Basterebbe citare M - Il mostro di Düsseldorf per ricordarci film che pure in tempi lontanissimi hanno parlato di pedofilia o violenza sui più piccoli. Giordano, preso dall’urgenza del dire, appiattisce la narrazione con toni didascalici. Esasperando il discorso, si potrebbe pensare che sia accecato dalla rabbia e dall'impellenza di “denunciare il fatto”. Il suo film quindi è un grido, e come spesso accade quando si è arrabbiati non ci si cura della forma.

Senza amore è un film che ci ricorda quanto male può fare il silenzio, e quanto troppo poco spesso non ascoltiamo la voce dei più piccoli. E i recenti fatti di cronaca sembrano in questo senso unirsi all’appello. Bravo Renato Giordano quindi per il suo tentativo di rompere un angosciante stato di cose.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Senza_amore_Un_grido_contro_il_silenzio-3919.html

mercoledì 2 dicembre 2009

A Christmas Carol

Anno: 2009
Regia: Robert Zemeckis
Distribuzione: Buena Vista

Strana cosa il 3D. Davvero. Pare proprio che più vengono realizzati film che sfruttano questa tecnologia, più ci si divide tra chi ne vorrebbe ancora e chi invece già non ne può più. Poi arriva un film come A Christmas Carol, targato Disney e diretto da Robert Zemeckis, che invece che mettere tutti d’accordo aumenta i dubbi e ci si ritrova persino più divisi. Strana cosa il 3D…

Ispirato al celebre racconto di Charles Dickens, A Christmas Carol narra della redenzione di Ebenezer Scrooge, vecchio avaro che il dio denaro ha reso arido. Scrooge vive infatti da anni nella solitudine e nel disprezzo per il prossimo. Ma una notte, la vigilia del Natale, giunge a fargli visita il fantasma del suo caro amico e collega Marley, il quale gli preannuncia la visita di altri tre fantasmi: quello del Natale Passato, quello del Natale Presente e quello del Natale Futuro. Saranno loro a mostrare al vecchio Scrooge a cosa può portare una vita di cattivi propositi…

I discorsi da fare sono molti. Innanzitutto va chiarito che ci troviamo di fronte a una grande pellicola. Importante dal punto di vista cinematografico non solo perché segna un decisivo passo in avanti per le tecnologie utilizzate, il RealD 3D, l’IMax e il Performance Capture, mai come in questo caso sfruttate in tutta la loro suggestiva efficacia, ma anche perché rappresenta la migliore pellicola realizzata sul Canto di Natale, racconto che è stato proposto sul grande schermo e in tv complessivamente un centinaio di volte (basti pensare che la prima trasposizione risale al 1910!).

La regia di Zemeckis è al top. Ispiratissimo, il regista di Ritorno al futuro trasporta lo spettatore in un tripudio di effetti speciali, soggettive e corse a perdifiato alla ricerca del tempo perduto. Certo, non mancano i momenti dedicati allo sfruttamento del 3D (la fuga dal Natale Futuro o la lunga soggettiva iniziale), ma Zemeckis non rinuncia all’autorialità, proponendo soluzioni visive efficaci a prescindere dal 3D. E’ riprova di questo la differente resa dei vari momenti narrativi che evocano un crescendo di diverse emozioni nello spettatore: dalla nostalgia (il passato), alla paura (il futuro). Inoltre, vale la pena sottolineare come Zemeckis punti molto sull’aspetto “gotico” del racconto e giochi con le ombre (curiosamente, considerato che abbiamo a che fare con un film in 3D) e con le soggettive, come se A Christmas Carol stesso fosse visto attraverso gli occhi di Scrooge. O meglio, come se il pubblico fosse Scrooge. Un’intuizione che ha del geniale.

Sulla recitazione va fatto un chiarimento: la resa del Performance Capture varia a seconda dell’attore su cui esso è plasmato. Jim Carrey dal "canto" suo è talmente vulcanico che fa proprio il mezzo riuscendo a caratterizzare ben quattro personaggi. Rispetto a Polar Express o Beowulf poi, A Christmas Carol risulta più avvolgente e meno freddo. In qualche modo, più autentico. Bravi anche Colin Firth, Gary Oldman, Bob Hoskins e Robin Wright Penn.

Insomma, strana cosa questo 3D. Perché se è vero che ha il dono di stupire lo spettatore ogni volta di più, si ha anche la sensazione che senza di lui A Christmas Carol sarebbe stata comunque una pellicola eccezionale. E quindi ancora una volta si finisce per domandarsi: ma ce n’era davvero bisogno?

...Sapete cosa? Andiamo al cinema a chiederlo al fantasma del Natale Futuro!

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-A_Christmas_Carol_Un_Canto_intonato_per_il_Natale_di_tutti-3856.html

lunedì 30 novembre 2009

Triage

Anno: 2009
Regia: Danis Tanovic
Distribuzione: 01 Distribution

Il premio Oscar per “No Man’s Land” (2001) Danis Tanovic presenta “Triage” (la tradizionale pratica di pronto soccorso, per smistare i pazienti sulla base dell'urgenza di cure), prima pellicola in concorso alla quarta edizione del Festival del film di Roma. Accolto freddamente dalla critica, “Triage” indaga i traumi post-bellici.

David e Mark sono due foto reporter d’assalto. Da anni, infatti, vengono inviati dai rispettivi agenti nei territori di guerra per scattare foto scioccanti da vendere poi a giornali e riviste. Un giorno però, durante un viaggio in Kurdistan e a seguito di un conflitto a fuoco, le strade dei due amici si separano. E per uno dei due il ritorno a casa, una grigia Dublino, sarà pieno di ombre…

Nel raccontare “Triage”, Danis Tanovic dimostra grande capacità nel gestire drammaticamente le scene di guerra. Tra amputazioni e eutanasie, il regista bosniaco riesce a catturare le facce, le sensazioni, le angosce dei personaggi coinvolti negli spargimenti di sangue e a rimandarle allo spettatore. Del resto, Tanovic aveva già convinto il pubblico di questo suo talento proprio con il film “No Man’s Land”, che riprendeva il conflitto serbo-bosniaco attraverso il punto di vista di un pessimista e di un ottimista.

A differenza di quel primo successo, però, “Triage” è più debole, e la visione si fa più faticosa, quando il regista si sposta a Dublino dove il protagonista (un modesto Colin Farrell) cerca di rimuovere il trauma di ciò che ha visto. Tanovic non riesce a scavare in profondità, a varcare la soglia che separa un film didascalico e un poco scolastico, da un melodramma emozionante. Rimane in superficie e l’idea di far spiegare la guerra a uno psicanalista (il mitico Christopher Lee) non paga, risultando un mero intellettualismo di maniera.

Brava la giovane Paz Vega, che speriamo di vedere presto in film più riusciti.

Diego Altobelli (11/2009)

venerdì 27 novembre 2009

Dorian Gray

Anno: 2009
Regia: Oliver Parker
Distribuzione: Eagle Pictures

Il regista Oliver Parker traduce in Cinema il romanzo estetico che introdusse il culto per il Bello come oggi lo conosciamo. Il suo Dorian Gray appare però troppo pulito e di "buone maniere".

La trama è universalmente nota. Dorian è un ragazzetto dall'animo puro che viene iniziato alla vita dagli aforismi di Lord Wottom. Quest’ultimo per il giovane orfano diventa un mentore e un punto di riferimento. Poi, durante una delle lunghe conversazioni che tengono i due, Dorian esplicita il desiderio di rimanere bello in eterno. La sua anima viene così impressa nel suo ritratto, e mentre l’immagine nel quadro avvizzisce per i peccati commessi da Dorian, lui rimane bello e giovane…

Perché si diceva di “buone maniere”... Perché manca la ruvidità. Manca la sporcizia. Manca la perdizione. Dorian Gray di Oliver Parker è come una scampagnata a catturare insetti: usi il retino e non ti sporchi le mani. E questo malgrado il regista tenti in più occasioni di mostrare il lato oscuro del protagonista. Dorian uccide (il film inizia proprio con lui che fa a pezzi una persona…); ha rapporti sessuali con donne di malaffare e ambigui uomini; passa dal libertinaggio più sfrenato alla totale mancanza di morale, come da un bordello a un altro. Eppure il risultato è tutto fuorché traumatico o impressionante. Scelta voluta? Può darsi. Viene invece da pensare che ormai il pubblico è abituato a tutto e certamente non rimarrà colpito dalla presunta immoralità incarnata dal visino candido dell’attore protagonista Ben Barnes: bello come un soprammobile. Ci voleva qualcosa di più forte. Una regia più cattiva e, in qualche modo, pulp.

Invece abbiamo Ben Barnes che già avevamo visto nel secondo capitolo di Narnia nei panni del principe (“principino” rende meglio l’idea), e anche lì non è che ci avesse convinto poi molto… Meglio allora l’altro protagonista, Colin Firth, che malgrado la barba “fintissima”, riesce quantomeno a incarnare l’atteggiamento snob upperclass.

Dorian Gray, insomma, delude le aspettative perché la dignitosa regia di Parker (Un marito ideale; L’importanza di chiamarsi Ernest) pecca di coraggio. Forse anche di eccessiva reverenza. Francesco Alò nella sua recensione ne Il Messaggero suggeriva di recuperare American Psyco e ha proprio ragione: è lui oggi il nostro Dorian Gray.

Diego Altobelli (11/2009)

500 giorni insieme

Anno: 2009
Regia: Marc Webb
Distribuzione: 20th Century Fox

Gradevole variazione sul tema Amore. Però, come ci tiene a sottolineare l’incipit del film, 500 giorni insieme non è una storia d’amore. Forse più la storia di una presa di coscienza.

Il giovane Tom, fresco di una laurea in Architettura, lavora come compositore di biglietti d’auguri sognando un giorno di fare il grande salto. Nel grigiore degli uffici conosce Summer e ben presto i due si mettono insieme. Saranno 500 giorni di alti e bassi…

Potremmo dire che Marc Webb, al suo esordio alla regia, colpisce il bersaglio ma senza fare centro. La sua commedia “romantica-ma-non-troppo” narra con passione il turbamento dello spaesato Tom, troppo inesperto per capire l’ambiguità dell’amore. E proprio su questa annosa questione (comprensibile a tutti) ruota la pellicola che sfrutta con caotica efficacia una narrazione fatta di sbalzi temporali. In questo andirivieni di regali (non)fatti, appuntamenti (mancati), primi (e ultimi) baci, rinunce e "prime volte", in realtà la sensazione è quella che il filo del discorso si perda un po’ per strada. Webb, infatti, infila nel pentolone delle emozioni un po’ di tutto, dal musical alla commedia classica, e non sempre con risultati coerenti. Giunge in soccorso allora la sceneggiatura di Michael H. Weber e Scott Neustadter (considerati da Variety tra i dieci sceneggiatori da tener d'occhio). La loro è una scrittura fresca, pungente, disincantata, che regala più di un sorriso e fa dimenticare (o accettare di buon grado) le imperfezioni di regia.

Decisamente affiatati gli interpreti. Giovani, belli e bravi. Joseph Gordon-Lewitt convince nei panni del bravo ragazzo a cui servirebbe una bella sveglia al collo; Zooey Deschanel, dal canto suo, (già apprezzata protagonista del nuovo classico Yes Man) conferma la propria versatilità.

Con (500) Days of Summer (valeva la pena citare il titolo originale) insomma, Webb ci dona una piacevole sorpresa tra le commedie (non)romantiche. Le imperfezioni ci sono, ma la pellicola scivola via e ci ricorda ancora una volta che il tema “Amore” (tanto amato dai vari Moccia) può essere trattato con arguzia.

Diego Altobelli(11/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-500_giorni_insieme_Romanticismo_fa_rima_con_cinismo-3791.html

venerdì 20 novembre 2009

New Moon - The Twilight Saga

Anno: 2009
Regia: Chris Weitz
Distribuzione: Eagle Pictures

Il secondo capitolo della saga Twilight, ispirata alla serie di romanzi scritti da Stephanie Meyer, cambia guida al timone, preferendo Chris Weitz (About a Boy, La bussola d’oro) preferito a Catherine Hardwicke che pure aveva realizzato un buon primo episodio.

Bella viene lasciata da Edward, il vampiro di cui è perduta innamorata. Il giovane sa che se continuassero a vedersi, la vita della ragazza sarebbe messa in pericolo. Rimasta sola, Bella cerca di superare il trauma dell’abbandono. Ed è così che conosce Jacob, ma la ragazza non sa che il suo nuovo amico è un licantropo…

Il libro più complicato da trasformare in film, diventa al cinema un pellicola lenta e vagamente stantia. In questa staticità narrativa però, c’è anche tutto il fascino, e forse anche il successo, della saga di Twilight. Una fiaba in cui Bella è la principessa contesa, posta costantemente in pericolo, e intrappolata da un amore folle più pericoloso delle minacce esterne (vampiri, licantropi) che la perseguitano. La regia di Weitz si adegua alla natura tormentata della protagonista. Offre primi piani incisivi, scene solitarie e dialoghi che idealmente formano il lungo monologo della protagonista (così come avviene nei libri, per inciso). Tutto a discapito dell’azione. L’azione vera, pare suggerire il regista, è quella che prova Bella dentro di sé, e ce ne da’ prova facendoci udire il sospiro della protagonista un attimo prima dei titoli di coda. Il pubblico rimane a bocca aperta in trepidante attesa del terzo capitolo.

Diego Altobelli (11/2009)

Planet 51

Anno: 2009
Regia: Javier Abad
Distribuzione: Moviemax

Una volta tanto scende in campo l’Europa con un cartone animato realizzato interamente in Computer Grafica. E’ il caso di Planet 51, collaborazione Spagna – Usa, per un film ibrido suggerito da un soggetto di casa Dreamworks.

Sul lontano Pianeta 51 la vita scorre tranquilla. Le strade sono ordinate, le famiglie felici, i bambini giocano e il cielo è sempre azzurro. Fino a quando sul pianeta non precipita un’astronave da cui esce un… umano?! Gli esseri verdi che abitano il pianeta non reagiscono bene (anche a causa di troppi film di fantascienza catastrofici) e comincia così una rocambolesca caccia all’uomo…

Sceneggiato con l’aiuto dei co-autori di Shrek, Planet 51 è un divertente esempio di film d’animazione degli ultimi anni. Ritmo gioviale. Battute a raffica. Situazioni surreali. I ragazzi spagnoli hanno fato decisamente un buon lavoro confezionando un prodotto per famiglie digeribile e “passabile”.

Purtroppo però, proprio nella natura “derivante” di questo film v’è anche tutto il suo limite. Planet 51 omaggia (per non dire saccheggia) pellicole sparse un po’ ovunque. Da Wall-E a Guerre stellari passando per 2001 - Odissea nello spazio. Il risultato è un film copia carbone di molti altri. Manca insomma la vera novità. Il motivo in più per incitate altri ad andarlo a vedere nei cinema invece di aspettarlo (comodamente) a casa propria in dvd o blu-ray.
La morale è sempre la solita e il finale pure. Un film divertente, ma di cui in effetti non ci sono molte cose da dire.

Diego Altobelli (11/2009)

venerdì 13 novembre 2009

2012

Anno: 2009
Regia: Roland Emmerich
Distribuzione: Sony Pictures

Nel sua navigata filmografia costruita sopratutto su film catastrofici, Roland Emmerich ("Indipendent Day", "The Day After Tomorrow") ha dimostrato di essere un regista decisamente chiaroscurale. Infatti il regista tedesco naturalizzato statunitense se da una parte ha preso il meglio della cinematografia di Hollywood (ritmo e spettacolarità), dall’altra pare confermare a ogni nuova prova che abbia preso anche il peggio (una generale retorica e una narrazione non sempre lineare ma al contempo prolissa). E "2012", sua ultima fatica a sfondo catastrofico legittima questa idea.

Nel 2009 un giovane ricercatore indiano rivela a uno scienziato del governo americano che nel 2012 il Sole emetterà delle radiazioni talmente potenti da arrivare a riscaldare il centro del globo terrestre. La conseguenza di questa eventualità è la deriva dei continenti e, in estrema sintesi, l’annientamento del genere umano. 2012, la profezia si compie e i governi si mobilitano a mettere in salvo le genti con l’ausilio di enormi arche. Ma solo i più facoltosi, pagando la cifra “impossibile” di un miliardo di euro, possono salvarsi dalla distruzione totale. Uno scrittore squattrinato cercherà di salire di nascosto su una delle enormi navi…

Questa volta Emmerich impiega circa quaranta minuti per distruggere il mondo. E in effetti nella prima parte del film il regista riesce a gestire al meglio la trama piena di spunti interessanti incollando lo spettatore alla sedia. Mai come in questo caso, infatti, la distruzione è assoluta. Si vedono intere città staccarsi letteralmente dal suolo e cadere in baratri oscuri e incandescenti, innalzarsi onde alte più di mille metri e formarsi improvvisamente vulcani che sputano palle di fuoco. I vari protagonisti si mettono quindi in salvo ricorrendo prima a una limousine, poi alla jeep e poi ancora a due aerei… In questa girandola di cataclismi il tema che collega le varie storie è quindi il denaro. La questione che Emmerich tira in ballo è: chi ha diritto di salvarsi? E con quale metodo si può stabilire? Il regista però butta solo là il sasso. Nasconde la mano e la sua pellicola (forse la più spettacolare da lui realizzata finora) si perde tra le varie sottotrame. Decide di dare troppo spazio al personaggio del Presidente Americano (interpretato da un grande Danny Glover) e lascia morire il popolo italiano (tutto) dinnanzi a San Pietro. Brutta fine per noi e i Governi che si salvano sono i soliti: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Giappone e Cina. La chiave di lettura politica, ancora una volta, è in agguato, insomma.

Peccato, se Emmerich avesse puntato tutto sulla trama poteva essere la sua pellicola migliore.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2120

Un alibi perfetto

Anno: 2009
Regia: Peter Hyams
Distribuzione: Medusa

"Un alibi perfetto", la nuova pellicola di Peter Hyams (regista del pasticciato Giorni contati - lo ricorderete perchè è il film in cui Schwarzenegger provava a combattere il diavolo con un bazooka dentro a una chiesa...), è il remake dello strepitoso "L’alibi era perfetto" (Beyond a reasonable doubt, 1956) diretto da Fritz Lang.

C.J. è un giornalista che vorrebbe essere promosso alla sezione della cronaca del quotidiano per cui lavora. Resosi conto che l'avvocato Mark Hunter vince le cause procurandosi prove false, C.J. propone la storia al giornale, ma non bastano indizi e supposizioni. Per ottenere le prove di quanto pensa C.J. è disposto a tutto, anche a fingere di essere l’assassino di una prostituta di colore…

Debole rivisitazione che se non altro fa venire voglia di recuperarsi l’originale. Peter Hyams questa volta appare in difficoltà. La trama, decisamente articolata, appare più improbabile che avvincente. Causa degli attori, forse, non tutti in parte e a tratti “sprecati” come nel caso di Michael Douglas (anche se vale la pena vederlo nella scena in cui si confronta con il giovane Jesse Metcalife: sembra un leone in procinto di divorare un agnello...!). O forse colpa dei ristretti tempi in sceneggiatura, dove molti degli avvenimenti che accadono sullo schermo non hanno quel respiro di cui necessiterebbero.

Un’occasione sprecata, quindi, con l’unica emozione nel finale, data dal colpo di scena che però è merito di Lang.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Un_alibi_perfetto_Voglia_di_classici-3676.html

venerdì 6 novembre 2009

L'uomo che fissa le capre

Anno: 2009
Regia: Grant Heslov
Distribuzione: Medusa

Commedia nera che con umorismo grottesco e sagace disinnesca la reverenza nei confronti dell’intoccabile (soprattutto a Hollywood) U.S. Army.

Bob Wilton, un giornalista corrispondente dall’Iraq, incontra l’ufficiale Lyn Cassidy durante un’operazione militare. Lyn rivela al giornalista di fare parte di una unità sperimentale dell’esercito statunitense che ha il compito di combattere la guerra con il Flower Power. Wilton, coinvolto nelle operazioni di questo fantomatico esercito hippy, riuscirà a scrivere l’articolo della vita e ad apprendere gli insegnamenti dei cavaliere jedi…

Sceneggiatura affidata a Grant Heslov, che aveva lavorato con Clooney alla scrittura dell’ottimo “Good Morning Good Luck”, per quella che forse è la commedia più graffiante della stagione. Tratto dal romanzo di Jon Ronson, ispirato a sua volta da una storia vera (anche se mai confermata), “L’uomo che fissa le capre” riesce nel difficile intento di schernire la compostezza delle regole (militari e non) senza apparire maldestro. E lo fa ricorrendo all’illogicità, al grotesque più spinto. Nel film diretto da Heslov l’esercito americano parla di vagheggiamenti da LSD, di prostituzione, di capre che si possono addormentare solo guardandole. Il sottotesto si fa durissimo nei confronti della politica americana, ma l’umorismo stempera ogni possibile polemica.

Grandioso il cast perfettamente in parte. In ordine sparso: George Clooney, Ewan McGregor, Kevin Spacey e Jeff Bridges che sembrano i nuovi “4 dell’oca selvaggia”, ma che invece spazzano via con un'unica offensiva tutto il cinema di guerra hollywodiano rappresentato da Richard Burton, John Wayne & Co.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2117

giovedì 5 novembre 2009

Popiełuszko

Anno: 2009
Regia: Rafat Wieczynski

Produzione polacca imponente con 7 mila persone tra attori e comparse, 14 città e 7 mesi di lavorazione: il risultato di tale dispiego di forze è Popiełuszko, biopic di stampo fortemente televisivo diretto da Rafat Wieczynski.

La vita, divisa tra fede e lotta politica, di Padre Jerzy Popiełuszko, perseguitato dallo Stato che, a causa delle sue omelie che invocano alla libertà e chiamano a sé un numero sempre maggiore di fedeli, lo ritiene personaggio scomodo. Malgrado il popolo formi in difesa del sacerdote un servizio di ordine cittadino, l’opinione pubblica inizia una campagna diffamante nei confronti di Popiełuszko e la polizia non gli dà tregua. Un destino tragico lo attende…

La pellicola di Wieczynski (seconda prova per il regista) riesce nel doppio intento di fotografare un periodo storico piuttosto lungo e carpirne i molti aspetti sociali che sono andati mutando nel corso degli anni. Basti pensare che la storia inizia alla fine degli anni ’50 e segue la vita di Padre Jerzy fino alla morte avvenuta nel 1984. In questo lungo tragitto la pellicola trasmette con efficacia gli anni di lotta operaia, di intimidazioni, di tentativi di reprimere la libertà. Viene proclamata la legge marziale, Varsavia occupata, la Chiesa - anche grazie a Papa Giovanni Paolo II - si fa più influente e lo Stato annaspa. Ne paga le conseguenze Padre Jerzy Popiełuszko che diventa simbolo di una nazione il cui spirito di libertà non si è mai arreso (parafrasando le parole di Karol Wojtyła). Ben inseriti nel racconto i filmati veri (che avrebbero meritato più spazio) tra scene di massa e pellegrinaggi; ottima la scenografia che fotografa perfettamente i vari contesti storici. Adam Woronowicz nei panni di Padre Jerzy, infine, riesce a sostenere la lunga pellicola e a convincere sia come uomo che come parroco.

L’unico difetto del lavoro di Wieczynski, allora, è quello di avere un anima esclusivista. Difficilmente, infatti, chi non ha conosciuto il contesto storico o conosca la complessa situazione politica del Paese comprenderà molti dei passaggi narrativi. Wieczynski pare comunicare solo con la propria gente e ne esce fuori una pellicola ben fatta, ma decisamente settaria.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Popieluszko_Lottare_in_nome_della_fede-3592.html

mercoledì 4 novembre 2009

A boy called dad

Anno: 2009
Regia: Brian Parcival

La sorpresa della quarta edizione del Festival del Film di Roma ce la consegna l’inglese Brian Parcival con il delicatissimo "A boy called dad", pellicola capace di arrivare dritta al cuore e comunicare con tutti.

Liverpool, oggi. Il quattordicenne Robbie vive con la madre e la sorellastra dopo che suo padre li ha abbandonati. E’ di carattere buono anche se, come molti suoi coetanei, non sa dove indirizzare la propria energia. L’occasione gli si presenta un giorno e per puro caso. Infatti, dopo aver assistito a una lite furiosa, Robbie prende il figlio della sorellastra e lo porta via. Comincia così un viaggio nel cuore di tutte le emozioni: quella di essere genitore...

Senza girarci troppo intorno, "A boy called dad" è uno di quei rari film capaci di comunicare emozioni universali in modo autentico. Il regista Brian Parcival gioca con l’intimità e riesce nel difficile intento di mostrare gli animi dei personaggi. Infatti, pur con una sceneggiatura fatta per lo più di silenzi, in "A boy called dad" ogni scena rappresenta un passo in avanti verso la maturità e la crescita. Quella del piccolo Robbie, e quella dell’ancor più piccolo bambino che porta con sé. Forte, coraggioso e con un finale imprevedibile, "A boy called dad" meriterebbe di essere visto da tutti.

Incredibilmente bravo l’interprete principale Kyle Ward che cattura con la propria performance tutte le sfaccettature dell’ipotetico ragazzo – padre che, improvvisamente, si ritrova adulto e consapevole della propria umanità.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/aboycalleddad.htm

Sotto il Celio Azzurro

Anno: 2009
Regia: Edoardo Winspeare

Sul colle Celio, alla periferia di Roma, e poco lontano dal famoso ospedale militare, sorge Celio Azzurro, una scuola materna che sembra fatta in miniatura e che racchiude diverse, giovanissime, culture. Il film di Edoardo Winspeare, autore di quel "Galantuomini" presentato lo scorso anno sempre a Roma durante il Festival del Film, racconta la passione di un gruppo di maestri che lottano per far sopravvivere non solo l’asilo in cui insegnano, ma soprattutto i valori della famiglia, della pedagogia e della scuola.

Austriaco di origine, Edoardo Winspeare è stato adottato dal Salento italiano. Questa adozione ha portato alla produzione di cortometraggi e documentari sempre di buon livello. In seguito Winspeare si è saputo distinguere anche con le pellicole "Pizzicata" (1996) e "Sangue vivo" (2000). Ma con "Galantuomini", a dire il vero, l’anno scorso il regista non ricevette un buon riscontro di pubblico e critica, e in questo senso il ritorno al Festival nella sezione Alice nella Città con una storia sulla diversità e l’integrazione potrebbe essere letta (a ragione) anche come una rivincita nei confronti di una certa critica.

In "Sotto il Celio Azzurro" Winspeare diventa osservatore silenzioso e nascosto. Agli angoli di una classe, dietro i banchi, tra i cespugli. La cinepresa osserva e indaga stando in punta di piedi mostrando genitori confusi, insegnanti combattivi, bambini vivaci. Malgrado le razze e le etnie diverse. Sì perché Celio Azzurro è stato il primo asilo ad accogliere bambini stranieri in età prescolare tra le proprie mura. All’inizio molto osteggiato, ora cercato e fortemente voluto da tutti: genitori, bambini e insegnanti. La forza sta nel metodo di insegnamento utilizzato, diverso e in qualche modo rivoluzionario. "Sotto" il Celio Azzurro imparano tutti. I bambini nel confrontarsi con realtà nuove e diverse, i genitori nell’integrazione tra culture. Un vero e unico esempio di istruzione davvero nuova.

Immersione potente nella vita vera di educatori che lottano per il sogno di vedere tutti i bambini crescere insieme e diventare adulti in un mondo nuovo, "Sotto il Celio Azzurro" rappresenta un bellissimo esempio di cinema educativo.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/sottoilcelioazzurro.htm

martedì 3 novembre 2009

L'uomo che verrà

Anno: 2009
Regia: Giorgio Diritti
Distribuzione: Mikado

Il regista del premiato "Il vento fa il suo giro" Giorgio Diritti torna al cinema con L’uomo che verrà, storia vera della strage di Marzabotto, avvenuta alle pendici del Monte Sole nell’inverno del 1944. Una delle pagine italiane più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale.

Italia, 1943. Martina, una bambina muta, vive insieme alla sua famiglia nel paesino di Marzabotto (provincia di Bologna). Il paese, punto nevralgico per gli spostamenti militari, è preso di mira sia dai nazisti che dai partigiani che chiedono favori di vario genere alla comunità. Purtroppo, a seguito di uno scontro a fuoco, i nazisti scoprono l’inevitabile doppio gioco della famiglia di Martina. E sarà una strage…

Film della memoria. Pellicola storica raccontata sottovoce e con piglio decisamente formale. Come a voler rispettare, con questa scelta registica, il ricordo delle 770 persone morte in quella terribile strage. L’uomo che verrà rappresenta un momento importante per la quarta edizione del Festival di Roma. Ultimo film italiano in concorso, è probabilmente il più sentito, accorato e commovente tra quelli visti finora.

Per raccontare la storia di Marzabotto, Diritti prende il punto di vista della piccola Martina, resa muta a causa di un trauma (la morte del fratellino), perseguitata dai bambini del paese, ma piena di vita e consapevole di tutto. In essa, Diritti incarna lo spirito della "vera" resistenza. Non quella formata da coloro che impugnarono i fucili (sembra suggerire il regista), ma quella fatta dalle persone comuni, prime vittime della guerra. Anzi, di tutte le guerre. Martina è l’anima della comunità. Un paese silenzioso in cui si parla poco (e in dialetto per non farsi capire dagli estranei, sia partigiani che tedeschi), che nasconde nel silenzio i propri pensieri. Bello, a tal proposito, il parallelismo tra il tema scritto dalla piccola Martina a scuola (bruciato appena letto) e l’incapacità delle sorelle di vivere liberamente i propri sentimenti.

Ottime le interpreti principali Greta Zuccheri, la sempre “intimamente forte” Alba Rohrwacher, e Maya Sansa.

Un film per non dimenticare. Forse eccessivamente lenta la prima parte e vagamente “scolastico”, ma se ne capisce il nobile intento di rispettare la nostra memoria.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-L_uomo_che_verra_Dedicato_a_tutti_coloro_che_verranno-3447.html

Vision

Anno: 2009
Regia: Margarethe von Trotta

Torna lo stile ruvido e assai cinico di Margarethe von Trotta, regista tedesca Leone d’Oro nel 1981 grazie a Anni di piombo, con Vision: pellicola “mistica” incentrata su una delle sante più eclettiche della Chiesa.

Fine dell’anno 1000 d.C. La vita di Hildegard von Bingen, scrittrice, poetessa, cosmologa, filosofa e scienziata, maestra guaritrice, entrata in monastero a otto anni e tormentata da visioni mistiche. Quando in età adulta confesserà il suo talento di parlare con Dio, comincerà per lei una esistenza tormentata…

Indubbiamente, Margarethe von Trotta dimostra una personalità spiccata e un grande talento nel gestire la macchina cinematografica e nel rapportarla con temi come carne, misticismo, fede. Il suo Vision, in concorso alla quarta edizione del Festival del Film di Roma, dimostra di essere una delle pellicole più interessanti della manifestazione. Intrigante, sporco, silenzioso, dal film della von Trotta si viene catturati. Buon ritmo, malgrado la trama indubbiamente piuttosto “statica”, buon uso diegetico della cinepresa che riesce a raccontare tutto, anche i sentimenti intimi dei personaggi. Un film che ricorda (e forse lo omaggia anche) il capolavoro La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodore Dreyer. Con quella pellicola del 1928, Vision ha in comune l’intima percezione del divino attraverso l’uso della luce e degli sguardi. Non raggiunge quei livelli di perfezione visiva, però è ammirevole quanto la von Trotta riesca ad avvicinarvisi.

Ottima l’interprete principale Barbara Sukova, "affezionata" della von Trotta, attrice dal carattere versatile ed esordiente nel 1977. Fu anche protagonista di film come "Romance & Cigarettes" (John Turturro, 2005).

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbnovita/novita.php?id=692

G.I.Joe - La nascita del Cobra

Anno: 2009
Regia: Stephen Sommers
Distribuzione: UIP

Nati dalla mente prolifica della Hasbro, nota casa di produzione di giocattoli, i G.I. Joe sono probabilmente i pupazzi più famosi al Mondo. All’idea di partenza del primo pupazzo di gomma alto trenta centimetri (una versione maschile della Barbie) si devono centinaia di altri giocattoli o, per meglio dire, Action Figures, termine coniato appositamente proprio per il primo esemplare, uscito sul mercato nel 1964. A ogni modo le origini di G.I. Joe vanno ricercate ancora più indietro. Fu infatti il disegnatore David Breger a dargli vita su una striscia a fumetti nel 1942. Il comic ebbe un tale successo che, incredibile ma vero, ne venne realizzato un film nel 1945 dal titolo “The Story of G.I. Joe”. Del film in questione se ne sono perse le tracce, ma il successo del personaggio è proseguito per molti, moltissimi anni. Fino ad oggi.

Ora è Stephen Sommers (“La Mummia” 1 e 2, “Van Helsing”) a riprendere in mano l’idea di un gruppo di specialisti paramilitari alle prese con terroristi noti col nome di Cobra. Questi posseggono una potentissima arma biologica capace di corrodere qualunque superficie. Ai G.I. Joe il compito di assicurare l’ordigno alle forze del bene…

Il problema non è questo ultimo blockbuster “giocattoloso” dal titolo G.I.Joe: La nascita dei Cobra. La regia di Sommers infatti fa il suo dovere, senza infamia e senza lode, costruendo una trama da action movie piuttosto ordinaria, prevedibile e tutto sommato già vista, dirigendola con ritmo. Il risultato è quindi un giocattolo divertente e adolescenziale come uno scaccia pensieri. Né più, né meno. Anzi, forse persino migliore dei recenti “Transformers 2”, “Star Trek”, e “Terminator: Salvation” perché, a ben vedere, G.I. Joe sfrutta il tema dell’alter ego. Gioca sul concetto di “nemesi”. Riuscendo perfino, a brevi tratti, a intrigare lo spettatore.

Il problema come si diceva non è questo “G.I.Joe: La nascita del Cobra”, cui siamo certi seguirà presto un secondo capitolo. Il problema è che a vedere tutti questi “giocattoli” fare a cazzotti sul grande schermo si rischia di perdere il senso della parola film. Della parola cinema. E della parola genere.

Diego Altobelli (08/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2089

Nel paese delle creature selvagge

Anno: 2009
Regia: Spike Jonze
Distribuzione: Warner Bros.

Nasce da una favola breve scritta da Maurice Sendak questo difficilissimo adattamento cinematografico dal titolo Nel paese delle creature selvagge.

Max è un bambino inquieto che come molti coetanei non riesce a esprimere come vorrebbe i propri sentimenti finendo per auto esiliarsi in un mondo immaginario. Un giorno, a seguito di una furiosa lite con la madre, Max vede materializzarsi davanti ai propri occhi un mondo fantastico popolato da creature capricciose, inquietanti e manesche…

Dalla stessa casa di produzione di Michel Gondry arriva Nel paese delle creature selvagge, per la regia di Spike Jonze. E l’influenza “gondryana” si vede tutta fin dalle primissime battute della pellicola, per poi divenire forza espressiva sotto forma di giganti pelosi. Proprio gli amici immaginari di Max (interpretato da uno smarrito Max Record) rappresentano l’anima del film. Bisbetici, scontrosi, bipolari, dalla duplice valenza, a ben vedere le creature selvagge sono il film stesso. Una pellicola schiva, che tende ad allontanare lo spettatore (esattamente come le creature nei confronti del piccolo visitatore), costruita com’è su una trama che scava nella psicologia infantile. Facciamo che… io sono il re, dice Max. E da quel momento inizia un gioco di ruolo a cui partecipa anche lo spettatore. Facciamo che… ci sono delle creature che rompono tutto. Facciamo che siamo amici. Facciamo che guardiamo un film (dalla bellissima regia) difficile e contorto come sono a volte le immaginazioni dei bambini.

Visto in quest’ottica, ovvero come analisi psicologica di un bambino fatta attraverso il mezzo cinematografico, il film di Spike Jonze (lo stesso di Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee) è un piccolo gioiello. Verrebbe da dire quasi "un capolavoro". Ma l’effetto di finzione dura poco e ci si scontra inevitabilmente con un ritmo troppo lento e una trama che proprio non decolla. Effetto voluto, indubbiamente. Il regista, del resto, ci aveva già abituato a contorti viaggi psicologici, ma questa volta (forse proprio a causa del tema troppo specifico) non convince del tutto.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Nel_paese_delle_creature_selvagge_Facciamo_che_-3544.html

martedì 27 ottobre 2009

Rec 2

Anno: 2009
Regia: Juame Balaguero e Paco Plaza

Raramente un seguito riesce ad essere più avvincente del primo episodio. Questa sembra essere una regola d'oro del cinema, ed è quasi un dogma se viene applicata nel genere horror. Ma come si sa, ogni regola ha la sua eccezione, e in questo caso l'eccezione si chiama Rec 2.

Comincia esattamente da dove era finito il primo episodio. Una giovane reporter viene risucchiata da una creatura nel buio di una palazzina dopo che questa è stata chiusa e sigillata per motivi di sicurezza nazionale. Infatti, all'interno di quelle mura è stato rilasciato un terribile virus che pare dia alle persone contagiate i sintomi della rabbia. Ma non tutto è quel che sembra. Se ne accorgerà a sue spese la squadra di recupero inviata dalle forze di sicurezza nazionali...

Il primo Rec era piaciuto perchè, insieme all'idea di una soggetiva continua molto simile a quella utilizzata per il celeberrimo The Blair Witch Project, riusciva a catturare lo spettatore grazie a una suspance dosata sapientemente, un ritmo convulsivo, e scene di paura davvero impressionanti. Però, era davvero difficile pensare che dopo questa prima fortunata prova il duo di giovani registi (appena trentenni) Juame Balaguero e Paco Plaza potesse dirci qualcosa di nuovo sul fronte narrativo e stilistico. E invece si sono riusciti.

Visivamente parlando Rec 2 sfiora la perfezione. Maniacale l'attenzione ai dettagli, ogni inquadratura sembra essere l'esito di uno studio accurato e calcolato. Non c'è spazo, inoltre, per i momenti di pausa, e il film è un continuo fluire di colpi di scena e scene di sangue. Senza tregua. Insomma, un film che piacerà a tutti gli appassionati del genere. Sulla trama non vogliamo aggiungere altro per non rovinare l'inquietante sorpresa.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2085

Basta che funzioni

Anno: 2009
Regia: Woody Allen
Distribuzione: Medusa Film

Boris Yelnikoff è un ex fisico di fama mondiale anziano, burbero e annoiato dalla vita. Ha un matrimonio fallito alle spalle. Un suicidio mancato. E un mancato premio Nobel. Insomma, Boris vive considerandosi un fallito, ma senza ammetterlo a se stesso. Per ovviare a questa frustrazione insegna persino scacchi ai bambini in modo da poter sfogare su di loro le sue insofferenze. Un giorno però incontra Melody, una miss di provincia che vive senza dimora per le vie di New York. Tra loro nascerà un rapporto particolare...

Woody Allen torna a New York e alla sua Manhattan dopo il tour europeo che lo ha tenuto distante per ben quattro film. E lo fa adattando una commedia che aveva concepito più di dieci anni fa per un attore ora scomparso. A rimpiazzarlo arriva Larry David, noto comico americano.
"Basta che funzioni" dividerà il pubblico e la critica. Se da una parte infatti Allen ritorna a parlare dei temi a lui più cari (l'ipocondria, l'amore, il sesso, il trascorrere del tempo) con una sceneggiatura scoppiettante e piena di battute "geniali", dall'altra è innegabile che il regista di "Io e Annie" non ha più lo smalto di un tempo, che i dialoghi suonano già sentiti e che le retoriche intellettuali sembrano più deliranti che pungenti.

La storia, del resto, è un clichè: lui, anziano intellettuale, si lega a una ragazza molto più giovane che ha voglia di vivere a pieno i suoi anni. Il conflitto che si crea porta i toni dell'autobiografia. Il risultato è un film divertente, stilisticamente impeccabile, ma di cui non si sentiva strettamente il bisogno.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2094

Motel Woodstock

Anno: 2009
Regia: Ang Lee
Distribuzione: Bim

Il Leone d’Oro Ang Lee, insieme al collaboratore di sempre James Schamus, sceneggia e dirige Motel Woodstock. Tratto dall’omonimo romanzo biografico, il film narra dei Theichberg, una famiglia che, per evitare il fallimento e il relativo pignoramento del proprio Motel, decide di trasformarlo nella “base” organizzativa per un concerto. Saranno “3 giorni di Pace e Musica”…

Storia di un concerto mai visto. Motel Woodstock è in realtà la storia di una famiglia, di un'unione, di un'utopia. Ang Lee, nel narrarne gli aspetti e contestualizzarli nel periodo sessantottino di Woodstock, opta per la commedia e il racconto “da viaggio”. C’è tutto: la necessità iniziale di rimboccarsi le maniche e i preparativi; la partenza; la scoperta del tragitto; la meta e la trasformazione. E in questo particolare on the road (dal Motel al palco, andata e ritorno) il giovane protagonista Eliot (un promettente Demetri Martin) cresce e trova il modo di diventare ciò che vuole essere. Lo scontro generazionale e il conseguente confronto con i genitori è inevitabile (magnifica la battuta del padre che alla domanda del figlio su perché abbia sposato la madre risponde: “Ovvio, perché la amo”), così come la scoperta di un mondo nuovo e “allucinante”, ma non per questo cattivo. Anzi. Tutte le scoperte di Eliot (non ultime quelle sessuali) vengono affrontate con occhio disincantato e distante. E alla fine proprio del concerto di Woodstock (pur non vedendolo mai), in qualche modo, si capisce cio' che esso ha rappresentato per il regista. Un viaggio di crescita universale e irrinunciabile che nel bene e nel male (come il viaggio sulla Luna, citato nel film) ha segnato la storia.

Ottimi gli interpreti come il già citato protagonista Demetri Martin, la madre Imelda Staunton e Henry Goodman nel ruolo del padre. Sempre incredibili invece Emile Hirsch (Into the wild) e Liev Schreiber (X-men: le origini - Wolverine).

Ang Lee ci regala con Motel Woodstock una commedia disincanta e non banale, in cui la prima parte risulta più fluida della seconda, invece più sotto tono. Ma si sa, in un viaggio, l’andata è sempre meglio del ritorno.

Vai allo speciale sul cinema della contestazione

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2107

The warrior and the wolf (Lang Zai Ji)

Anno: 2009
Regia: Zhuangzhuang Tian

Il regista del buon biografico The Go Master (presentato proprio a Roma nella prima edizione del Festival del Cinema) Tian Zhuangzhuang torna nella quarta edizione con un film dalle venature fantasy e le ambizioni horror.

Cina, Impero Han. Lu, un giovane guerriero succede al generale Zhang per la guida dell’esercito. Finita la guerra, Lu torna a casa, ma durante il suo cammino incontra una donna che lo inizia alle pratiche degli uomini lupo…

Troppo ambizioso questo Lang Zai Ji (The warrior and the wolf). Il registro narrativo pedante e la narrazione piuttosto criptica rendono la visione del film di Tian Zhuangzhuang più che altro noiosetta e adatta solo ai patiti del genere wuxia (di cui questo film può rappresentare un interessante variabile) e agli amanti sfegatati delle storie sui licantropi. Purtroppo, tutti gli altri dovrebbero tenersene alla larga.

Peccato per la buona regia, molto evocativa (il regista il talento ce l’ha), la buona fotografia e il buon uso del montaggio, tutte cose che se inserite nella giusta storia, avrebbero dato vita a un piccolo capolavoro. Invece, The warrior and the wolf è un nulla di fatto. Fallimentare come affresco storico. Debolissimo come horror. In una parola: stancante. Era meglio The Go Master, dove si raccontava la storia vera del maestro degli scacchi cinesi...

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-The_Warrior_and_the_Wolf_Balla_con_l_uomo_lupo-3437.html

The Go Master

Anno: 2006
Regia: Zhuangzhuang Tian

Dal lontano "Oriente" arriva questa pellicola biografica diretta dal regista Tian Zhuangzhuang, apprezzato autore di pellicole drammatiche. In "The Go master"il regista cinese decide di raccontare, con toni asciutti ma accorati, la vita di Wu Qingyuan, l'uomo che ha diffuso la cultura del gioco del Go in tutto il Giappone fino a istituirne una setta a lei legata e seguita ancora oggi da milioni di fedeli.

Il Go, spiegato brevemente, è una sorta di scacchi con valenze filosofiche: la tavola del gioco è composta da una griglia quadrata suddivisa da una ragnatela di linee orizzontali e verticali; si affrontano due giocatori, il primo detiene le pedine nere, il secondo quelle bianche; lo scopo del gioco è riuscire a conquistare più spazio, con le proprie pedine, sulla tavola di gioco. Nel Go l'obiettivo finale non è l'annientamento dell'avversario quindi, ma la conquista dello spazio, inteso sia come territorio da occupare fisicamente, sia come imposizione della propria mente su quella dell'avversario. Proprio questa doppia valenza simbolica fa avvicinare il gioco alla filosofia orientale e alle idee di mente e corpo ad essa legata.

Lunga divagazione sulle regole del gioco su cui il film è incentrato "dovuta", poiché il film di Tian Zhuanzhuang non lo fa, limitandosi a raccontare, con attento piglio storico, la storia del conflitto Cina- Giappone tra il 1940 e 1950 unita alla vita del giovane Wu. La più grande critica che si può rivolgere a "The Go master" infatti è proprio quella di rivolgersi ad un numero troppo ristretto di persone. Senza esagerare ci sentiamo di affermare che solo chi conosce il gioco del Go, seppur a grosse linee, e l'ambito storico in cui questo si è diffuso, può apprezzare appieno una pellicola che, oltretutto, non si discosta troppo dalla mera cronaca. Non bastano nemmeno gli inserimenti didascalici degli scritti del maestro Wu Qingyuan a dare un'idea più chiara e "sentita" della storia. Ed è un peccato. Un peccato perché le valenze simboliche presenti nel film sono proprio tante: dal parallelismo tra Cina e Giappone contrapposto alla visione di bene e male presenti nella cultura del Go, fino ad arrivare al concetto di esistenza stessa, messa a dura prova dai continui tentativi di suicidio del giovane. A questi aspetti significativi il film affianca, inoltre, una fotografia che regala alla pellicola delle connotazioni "mistiche": scene come l'attraversamento in mare di Wu con l'oceano che semplicemente invade tutto lo schermo, o i lunghi silenzi, tipicamente orientali, compagni di attese ancora più lunghe. Una regia composta quindi, a tratti molto dettagliata, ma troppo costretta nel suo ruolo biografico. Storico.

Senza equivoci però: il film di Tian Zhuangzhuang è ben diretto e ben interpretato, accompagnato da una fotografia efficace e una storia comunque affascinante, ma ineluttabilmente sfugge allo spettatore comune... come una pedina dal proprio avversario.

Diego Altobelli (10/2006)
estratto da http://filmup.leonardo.it/thegomaster.htm