venerdì 29 ottobre 2010

Burke & Hare

Anno: 2010
Regia: John Landis

John Landis torna alla regia dopo una lunga assenza dal grande schermo. La sua ultima regia cinematografica infatti risale al 1998 con la commedia-thriller "Delitto imperfetto"; gli anni 2000 lo hanno visto invece solo alla direzione di lavori televisivi. Ora il regista di "The Blues Brothers" tenta la ribalta con la cinica storia di William Burke e William Hare, due serial killer realmente esistiti nella Scozia degli inizi del 1800. Niente paura comunque, Landis non rinuncia al suo registro ironico e i risvolti della trama saranno tutt'altro che drammatici.

Edimburgo, 1828. Burke e Hare navigano in pessime acque. Senza soldi, sommersi da debiti, eterni vagabondi, i due cercano un modo per svoltare. L'idea giunge per caso: all'accademia di medicina servono continuamente cadaveri freschi da poter sezionare durante le lezioni di anatomia. I due decidono quindi di portare personalmente un cadavere al dottor Knox e, ritrovatisi riempiti di soldi, decidono di avviare una vera e propria attività. I cadaveri però, non cadono proprio dal cielo...

E' una black comedy il nuovo lavoro di John Landis che decide, con uno script a metà strada tra il coraggioso e il velleitario, di reinterpretare piuttosto liberamente la triste vicenda di due assassini senza scrupoli che in un solo anno uccisero diciassette persone tra vecchi e bambini. Suddetta vicenda ha tra l'altro già ispirato almeno un paio di pellicole: "Le iene di Edimburgo" (John Gilling, 1960) e "Burke e Hare - Mercanti di carne umana" (Vernon Sewell, 1971). Landis nella vicenda inserisce una storia d'amore totalmente inventata (quella di Burke per l'attrice Ginny), una serie di curiosità storiche (come la presenza di Darwin tra gli studenti del dottor Knox), insomma fa quello che in una scuola verrebbe definito un "bel compitino". "Burke & Hare" infatti è una pellicola piacevole da vedere, molto, ma forse non possiede quel guizzo, anche dal punto di vista della mera comicità, che la faccia amare fino in fondo.

Anche in questo caso, poi, a convincere più che la regia sono gli attori. Ottimi i due protagonisti Simon Pegg e Andy Serkis; sempre monumentale Tom Wilkinson; e si fa apprezzare anche la bella Isla Fisher. Il cameo di Christopher Lee, invece, è riservato ai vecchi fan.

Film goliardico, ben scritto e con una vena dolce - amara. La storia della conoscenza e della cultura, ci ricorda Landis, è lastricata di cadaveri. Ma quindi, viene da chiedersi, si possono perdonare anche coloro che uccidono in suo nome? La risposta di Landis è un sorriso silenzioso.

Diego Altobelli (10/2010)

giovedì 28 ottobre 2010

Last Night

Anno: 2010
Regia: Massy Tadjedin
Distribuzione: Medusa

Joanna e Michael sono una giovane coppia che, tra alti e bassi, vivono serenamente il loro matrimonio. Una notte però, durante una festa, tra i due si instilla il dubbio dell'infedeltà coniugale. Il giorno dopo Michael deve partire per lavoro e Joanna rimane a casa a scrivere al suo romanzo. Qualcuno cantava: "la lontananza è come il vento...".

La regista esordiente Massy Tadjedin proviene dalla cosidetta "scrittura creativa", o meglio dalla vera e propria sceneggiatura, e si vede. Evidentemente gli anni passati a scrivere con autori del calibro di Spielberg e Hopper si fanno sentire: in un film fatto di dialoghi, questi non sono mai noiosi o scontati, con delle punte di umorismo cinico che si fanno apprezzare strappando via qualche sorriso a denti stretti nel panorama noiosetto dello script.

Infatti il problema è proprio nel resto della scrittura. La trama è esile e piuttosto "inutile" (se mi concedete il termine): i personaggi si muovono nel dubbio se tradirsi o meno. Lui (un bravo Sam Whortington) con una avvenente collega (la "donna" Eva Mendez); lei (la "ragazza" Keira Knightley) con un suo vecchio amore (l'eterna promessa Guillaume Canet). Il film va avanti tra "i vorrei ma non posso" e i "ma anche no": in buona sostanza una noia. Il punto è che nell'annosa questione del tradimento dibattuto ampiamente nella storia del cinema da decine e decine di film, questo "Last Nigt" non aggiunge davvero nulla. Si lascia vedere, con una prima parte più interessante, anche grazie al buon cast, ma poi si perde in "fiume di parole" e "ultimi baci". L'avrete capito, ha di buono che fa venire in mente un sacco di canzoni, ma qui stiamo parlando di Cinema.

Diego Altobelli (10/2010)

Winx Club 3D - Magica avventura

Anno: 2010
Regia: Iginio Straffi
Distribuzione: Rainbow

Nel mondo di Domino la superficialità regna sovrana e tra chiacchiere e shoppping, un nuovo anno sta per iniziare alla Scuola di Magia Alfea. Il gruppo delle Winx, senza la loro leader Bloom impegnata in una nuova vita da principessa, si vedono costrette ad affrontare le Trix: trio di streghe formato da Icy, Darcy e Stormy. Pur riuscendo ad arginare la scaramuccia, le Winx non sanno che il vero scopo delle Trix è prosciugare l’albero della vita e risvegliare le Streghe Ancestrali. Il mondo di Domino è quindi di nuovo in pericolo…

La nuova opera ispirata ai personaggi creati da Iginio Straffi colpisce per un paio di elementi. Il primo è quello di essere una vera e propria orgia di colori accesi e musiche più o meno azzeccate (considerando il pubblico cui sono indirizzate) inserite nel contesto narrativo. Il secondo è quello di sviluppare una trama che, seppur non spiccando di originalità, colpisce per quantità di elementi messi in campo, oltretutto a loro volta inseriti in una vera e propria “continuity” delle Winx. Il film infatti richiama le gesta compiute dalle protagoniste nelle varie serie e film d’animazione, persino ricorrendo a flashback, facendo felici le fan delle fatine.

Certamente rimangono intatti tutti quegli elementi che hanno caratterizzato la serie animata. Sia positivi, come un dignitoso universo fantasy in cui scorrazzare a suon di incantesimi e colpi speciali; sia negativi, che vanno a inserirsi più che altro in un discorso se volgiamo sociologico, con una certa banalità nei caratteri e una superficialità diffusa nel regno di Domino a tratti effettivamente irritante. Le protagoniste parlano al telefono cellulare, hanno fidanzati privi di carattere, non si curano molto dei loro genitori, fanno le “adulte”… insomma le Winx fanno ancora tutte quelle cose che un tempo facevano inorridire i critici (me compreso!), con commenti tipo: “Dove andremo a finire, che gioventù senza valori…” ecc. ecc. Sarà che in televisione ormai c’è molto di peggio. Sarà che, se esiste un problema di valori, questo comunque non può e non deve essere identificato in un cartone animato. Sarà pure che i tempi cambiano e tutti si abituano a tutto. Ciò che resta, a voler stringere, è una trama intrigata e farcita di colpi di scena, e una realizzazione tecnica complessiva accettabile (più che in passato), 3D compreso.

Sì, è questa la novità, il film è realizzato interamente in 3D. Non siamo ancora competitivi, neppure in questo settore, ma a volte basta crederci per poter vedere la magia. E per il cinema italiano è lo stesso.

Diego Altobelli (10/2010)

mercoledì 27 ottobre 2010

L'ultimo dominatore dell'Aria (The Last Airbender)

Anno: 2010
Regia: M. Night Shyamalan
Distribuzione: UIP

E’ tratto dalla serie animata “Avatar: La leggenda di Aang” la nona regia di M. Night Shyamalan dal titolo “L’ultimo dominatore dell’Aria”. Questa volta il regista di “Unbreakable”, “Il sesto senso” e “The Village” non scende a patti con il genere, affrescando un fantasy infantile e votato all’intrattenimento.

In un mondo diviso in quattro Regni - Aria, Terra, Acqua e Fuoco – il giovanissimo Aang è l’Avatar: colui che è destinato a controllare i quattro elementi e far cessare le guerre tra i reami. Ad aiutarlo nell’impresa vi saranno Katara e Sokka, due giovani dominatori dell’elemento acqua, e insieme cercheranno di far fronte all’avanzata dell’impero del Fuoco, guidato dal malvagio Ozai…

Un film visivamente molto suggestivo, ma minato da una sceneggiatura troppo sacrificata. Troppe le trame secondarie (che vanno a intaccare invece la chiarezza di alcuni passaggi centrali); eccessivamente brevi alcune scene (come la liberazione delle terre oppresse); e la sensazione che le scene d’azione siano comunque troppo poche. Un vero peccato, perché “L’ultimo dominatore dell’Aria” è pieno di moltissime idee che funzionano davvero bene: merito tutto della serie a cartoni che consta di tre serie animate, per un totale di 61 episodi e che si è aggiudicato anche un Emmy Award come miglior serial per ragazzi.

Non siamo di fronte a un passo falso del regista Shyamalan che ha dichiarato di aver realizzato appositamente il film a uso e consumo dei suoi figli, tutt’altro, ma certamente lascia l’amaro in bocca l’eccessiva brevità della pellicola. Ci vorrebbe un seguito, e speriamo che il finale, "apertissimo", sia di parola.

Diego Altobelli (09/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2188

Shrek... e vissero felici e contenti

Anno: 2010
Regia: Mike Mitchell
Distribuzione: 01 Distribuzione

Prendete "La vita è meravigliosa" di Frank Capra, mescolatelo a "A Family Man" di Brett Ratner, date al tutto un condimento fantasy, ed eccovi servita l’ultima pellicola della saga di Shrek.

L’amore funziona allo stesso modo in tutte le razze... e anche Shrek sta per scoprirlo. Quando una mattina si sveglia rendendosi conto che le sue giornate sono tutte uguali le une alle altre - fatte di bagni nel fango, cene e pranzi con parenti e "pupi", feste di compleanno con i soliti amici - finisce per desiderare qualcos’altro. Che nella sua lingua significa: tornare ad essere un vero orco anche solo per un giorno. Alla fine dell’ennesima giornata "difficile" Shrek incontra Tremotino, un piccolo mago che esaudisce il suo desiderio.Ma il prezzo che Shrek dovrà pagare è molto alto: un mondo senza di lui! Ed è così che l’orco viene catapultato in una realtà alternativa...

E’ incredibile, a pensarci, come la saga di Shrek abbia avuto un'involuzione creativa così evidente e irrefrenabile. Se il primo episodio si proponeva come alternativa adulta ai classici film d’animazione, reinventando, di fatto, un genere, con i successivi la saga ha mostrato via via sempre più un’anima buonista, tediosa, conservatrice, potremmo dire repubblicana e un po’ bigotta. Tradotto in animazione: meno idee, meno ispirazione, meno audacia, temi triti e ritriti... insomma una mera macchina per far soldi. E questo "Shrek - ...e vissero felici e contenti" non fa eccezioni, dopo il brutto (possiamo dirlo senza paura d’essere smentiti) terzo e stanco episodio. In questo caso, poi, più che per l’affetto che si può provare per il mondo dell’orco verde, si va al cinema per il 3D, qui usato dignitosamente, ma senza slanci particolari.

Insomma, dell’originale guizzo artistico a questo ennesimo capitolo di Shrek non rimane nulla. E anzi si incomincia a provare un po’ di fastidio per questa società americana miniaturizzata in computer grafica e tinta di colori fantasy. I protagonisti sono borghesi e obesi in modo irritante; i cattivi (qui più chiaramente di ispirazione politica, tanto che Tremotino fa dei veri e propri slogan al popolo) sono ricchi, potenti ma senza personalità; i comprimari, malgrado le belle parole d’amicizia, rimangono buffi e senza peso relegati semmai alle sole situazioni comiche.

Shrek questa volta propone un "one man show" che ha il sapore della presunzione. Le giornate dell’orco verde sono tutte uguali, ma alla fine anche lui, nella sua boria, non chiede nulla di più. Viene il dubbio: che sia un modo per ridere della vita e della società di oggi? Può anche darsi, solo che da ridere c’è ben poco. Pinocchio e il Gatto con gli stivali hanno davvero detto tutto.

Diego Altobelli (08/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2180

The American

Anno: 2010
Regia: Anton Corbijn
Distribuzione: UIP

Il killer a pagamento Jack si trova in un brutto guaio: la mafia svedese non ha gradito l’ultimo “lavoretto” e si è messa sulle sue tracce per toglierlo di mezzo. Costretto a fuggire, Jack su consiglio di un amico, si rifugia nei paesini dell’Abruzzo dove conosce Clara, una prostituta che gli fa perdere la testa…

E’ un noir alla francese, questo “The American”. Malgrado il regista, Anton Corbijin, sia olandese; malgrado il film sia ambientato in Italia, in un Abruzzo “senza tempo”; e malgrado di francese non abbia neppure il cast. Però, come in un film sceneggiato da Jacques Prévert ai tempi del cosiddetto “realismo poetico” dei vari Marcel Carné, Abel Gance e Jean Vigò, George Clooney in “The American” è davvero espressivo nel ruolo di killer stanco di ammazzare e deciso a cambiare vita. L’attore parla poco, si trova a disagio con la lingua italiana, si guarda intorno con sospetto, è malinconico, mentre il sorriso sornione si fa via via più triste e consapevole del destino cui sta andando incontro. A fargli da spalla la bella Violante Placido che, pur non esaltando, convince iniettando un po' di umanità a un personaggio altrimenti algido.

Ma ciò che più sorprende di “The American”, tratto dal romanzo di Martin Booth “A very private man”, è la regia di Anton Corbijin, capace di descrivere la solitudine di Jack non rinunciando al climax narrativo, sempre in bilico tra attesa e azione. Corbijin, quindi, si rifà direttamente agli anni Trenta e Quaranta del cinema francese e riesce a catturare la stessa rarefatta malinconia di quei capolavori. E come in quei film, sembra voler dare priorità alla cristallizzazione del volto umano sulla pellicola. Alla “poetica” del vivere, alla sopravvivenza dei caratteri oltre la narrazione.

“The American” è stato definito dallo stesso Clooney il film del riscatto dell’Abruzzo, e dalla stampa americana come il più “oscuro” della filmografia di Clooney. Ebbene, a dire il vero “The American” non è né l’una né l’altra cosa, ma semplicemente un buon film. Diverso e, per i motivi sopra espressi, anche coraggioso.

Diego Altobelli (09/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2185

Mangia, prega, ama

Anno: 2010
Regia: Ryan Murphy
Distribuzione: Sony Pictures

Adattamento, per così dire, “all’acqua di rose” di un romanzo ambizioso, ma che quantomeno, grazie alla prosa sincera dell’autrice Elizabeth Gilbert, qualche corda giusta riusciva pure a toccarla. “Mangia, prega, ama” arriva nelle sale diretto da quel Ryan Murphy che si è fatto apprezzare per la regia della serie televisiva “Nip/ Tuck”: anche quella assai “discutibile” sul piano intellettuale e morale, che sia una coincidenza?

Liz dalla vita ha avuto tutto, eppure non ha niente. E’ in una notte di pioggia quando arriva a questa amara considerazione, e si trova in bagno a piangere. Amori finiti prima ancora di cominciare, un lavoro noioso che non le dà nulla, una vita sempre uguale a se stessa, il dubbio di essersi persa per strada... La notte passa insonne e il giorno dopo Liz decide di partire per un viaggio spirituale alla ricerca delle cose autentiche della vita. Passerà per l’Europa, fermandosi a Roma, per poi ripartire prima per l'India poi per l’Indonesia, dove conoscerà un vecchio guru, e dove incontrerà l’amore della sua vita…

Gli americani talvolta sono bravissimi a banalizzare concetti e problematiche di tipo spirituale. E’ esattamente quello che accade in “Mangia prega ama”, dove il sincero intento di un donna (l’autrice del romanzo autobiografico) di far prendere una direzione diversa alla sua vita, va a scontrarsi con le meccaniche di Hollywood. Dove il dramma si fa commedia; dove un viaggio diventa un enorme spot pubblicitario; e dove le “verità” si rivelano frasi retoriche e prive di peso. Julia Roberts (ormai una divinità in Terra) è bravissima a dar corpo a Liz, ma purtroppo per lei il suo personaggio non evolve. Nel percorso spirituale intrapreso dalla protagonista non c’è evoluzione, non ci sono picchi drammatici, non c’è, in buona sostanza, nulla. Se non la solita commedia americana sentimentale. Perché di questo si tratta, senza girarci troppo intorno: “Mangia prega ama” non è altro che una commedia sentimentale hollywoodiana. Come “Sex and the City”, come “I love Shopping”, come molte altre, insomma. Ed è a quel pubblico che si rivolge. E purtroppo per lei non bastano un paio di location esotiche a renderla “diversa” o più “profonda”. Inoltre, la sterile sceneggiatura si esaurisce in una Roma ritratta in cartolina; in un'India dove il dramma di un guru si rivela un falso; dove insomma tutto è candido, spurio, poco vissuto. Il mondo visto dalla protagonista sembra quello osservato attraverso una vetrina. E l’eccessiva lunghezza della pellicola crea un’attesa snervante per il consueto happy ending dove la Roberts si innamora del bel Javier Bardem tra gli sbadigli del pubblico. Lieto fine, sorrisi, tanta dolcezza, tanto calore… insomma, una vera menzogna.

Diego Altobelli (09/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2186

I mercenari (The Expendables)

Anno: 2010
Regia: Sylvester Stallone
Distribuzione: 01 Distribuzione

Operazione nostalgia messa a punto niente meno che dal re degli action movie anni ’80 Sylvester – Sly – Stallone, il quale ha pensato bene di “reclutare” un manipolo di uomini e metterli in un nuovo action dal titolo “I mercenari”. Prepariamoci a veder riunita la “crème de la crème” del cinema di genere Ottanta e Novanta con nomi come Jet Li, Jason Statham e Mickey Rourke, fino ad arrivare a vere e proprie divinità come Arnold Schwarzenegger e Bruce Willis. Tutti uniti contro un altro cattivo “storico” del filone, ovvero Eric Roberts, che da venti anni a questa parte recita sempre il solito ruolo.

I mercenari guidati da Barney Ross vengono assoldati dal misterioso signor Church per porre fine alla dittatura di Monroe, un uomo spietato che ha piegato sotto il suo volere la fittizia isola di Vilena, in Sud America. Sulla strada del gruppo si frappone un esercito e vecchi compari…

Come ha detto qualcun'altro sembra un po’ un cimitero di elefanti questo “The Expendables”. L’operazione nostalgia di cui si parlava all’inizio, infatti, fomenta l’entusiasmo solo nei primi minuti del film. Dopo si prosegue nella visione alla ricerca di qualcosa di più. “Qualcosa” che purtroppo non arriva e la delusione è solo in parte compensata dall’enorme (e ci mancherebbe altro) mole di azione, esplosioni, sparatorie e inseguimenti che il film offre a pioggia. Il punto è che i mostri sacri del genere, alla fine, si vedono poco. Schwarzenegger e Willis, ad esempio, sono relegati al margine di un cameo a tre (delizioso per tutti i vecchi fan, ma inutile per gli altri). Mickey Rourke interpreta un personaggio secondario, e non uccide neppure una mosca. Chi rimane? Ebbene, oltre al mitico Sly - la cui regia, dopo “John Rambo”, si fa sempre più iperrealistica - possiamo ammirare le gesta solo di Jason Statham, qui suo braccio destro, e di Jet Li messo contro Dolph Lundgren: il combattimento che ne esce è tra i più esaltanti del film. A proposito di quest’ultimo, poi, va segnalato come il suo personaggio sia, a conti fatti, il più carismatico tra tutti quelli presentati. Il che la dice lunga su tutta la caratterizzazione dei personaggi.

Insomma, è vero che gli action movie sono un genere semplice, dalla trama lineare e con personaggi tagliati con l’accetta, ma in questo caso Stallone ha esagerato. In "The Expandebles" non v’è nulla che possa piacere allo spettatore casuale e tutto è riservato ai patiti del genere. Ma anche a loro, ci giuriamo, rimarrà l’amaro in bocca. Speriamo in un seguito più avvincente.

Diego Altobelli (08/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2183

lunedì 25 ottobre 2010

Resident Evil: Afterlife

Anno: 2010
Regia: Paul W. S. Anderson
Distribuzione: Sony Pictures

Quarto capitolo della saga cinematografica di Resident Evil, notoriamente ispirata alla lunga serie di videogame. Torna alla regia Paul W. S. Anderson, regista del primo capitolo nonché marito della bella Milla Jovovich che, alla fine, si è convinta a impersonare nuovamente i panni di Alice: unica umana infetta dal T-Virus, sopravvissuta alla catastrofe che ha trasformato gli esseri umani in zombie.

Un prologo concitato ci introduce nuovamente nel mondo di Resident Evil. Una ragazza contaminata dal T-Virus aggredisce un passante a Tokyo e da quel momento la Terra ha i giorni contati. La Umbrella Corporation, creatrice del virus, non riesce a contenere la minaccia, il mondo si trasforma in un inferno e Alice, unica umana con un DNA in grado di resistere al T-Virus, torna alla Umbrella per porre fine all’incubo. Combatte, ammazza, torna a essere un umana “normale”, poi vola in Alaska, credendo di trovare lì la fantomatica Arcadia - una base dove si sono riuniti gli umani sopravvissuti alla malattia - ma così non è, e invece rintraccia una ragazza di nome Claire che non ricorda nulla del suo passato. Le due si spostano quindi a Los Angeles dove individuano la Arcadia in una nave cargo. Salire su quella nave, insieme a un manipolo di attori rifugiatisi in un carcere, diventa la loro priorità…

Rocambolesco e divertito action movie che riserva momenti trash degni di essere visti. Questo anche grazie al 3D, pubblicizzato come il medesimo utilizzato nel film “Avatar” di James Cameron. E Paul Anderson, potendo mettere le mani sopra quella tecnologia, fa un bel compitino che merita ampiamente la sufficienza, spingendosi anche fino a un sette pieno. Il segreto della sua riuscita è, soprattutto, quello di riuscire a bilanciare una ricercata estetica visiva (affatto banale), al puro intrattenimento. I riferimenti a certe installazioni di arte contemporanea, infatti, sono da rintracciare soprattutto nelle scene iniziali e finali, dove le scenografie del film finiscono per somigliare al progetto “Cremaster Cycle” firmato da Matthew Barney, regista tra l’altro di una pellicola con protagonista la cantante Bjork ambientata anch’essa (guardate un po’) su una nave e dal titolo “Drawing Restraint”. Inoltre, al di là delle suggestioni visive solleticate dal 3D, “Resident Evil – Afterlife” si fregia di una colonna sonora azzeccata e con una chiusura firmata dai A Perfect Circle dal titolo The Out Sider: da ascoltare a tutto volume. Generalmente buona, al contempo, la recitazione del cast, con la sempre grande Milla Jovovich a far la parte della regina madre.

E’ vero, non si può non notare una certa leziosità nel lavoro di Anderson, dove il difetto di un plot prevedibile riesce solo in parte a essere compensato dal grande ritmo. Ma al di là di queste critiche, additabili per altro all’intera saga e più trasversalmente a un intero genere cinematografico, “Resident Evil: Afterlife” riserva più di qualche sorpresa suggerendo la possibilità che, per una volta, il 3D non è il solo motivo per cui un film è stato realizzato.

Diego Altobelli (10/2010)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2184

La Horde

Anno: 2009
Regia: Benjamin Rocher, Yannick Dahan
Distribuzione: Fandango

Gli ultimi anni hanno visto un rinnovato interesse per il genere horror consolidarsi in Francia, con quella che è stata ribattezzata la “nuova Nouvelle Vague” che ha fatto parlare di sé, e continua a farlo. Il motivo è presto detto: a fianco a un genere indirizzato a un pubblico di massa come è quello horror – con tutti gli accorgimenti del caso come violenza estrema e effetti splatter - i francesi affiancano motivi autoriali di grande impatto emotivo, sconfinando in temi sociali, politici e culturali. Ecco quindi udire echi di malesseri provenienti dalla periferia di Parigi; intravedere irrequietezze appartenenti a uno Stato visto come “padrone”; o il confrontarsi con una facilità a far parte di una malavita organizzata che, in qualche modo, è presente, in modo palpabile, come un male collaterale, ma necessario per “sopravvivere” (nel caso del genere questo termine non è preso a caso) alla vita. “La Horde”, diretto a quattro mani da Yannick Dahan e Benjamin Rocher, pur non raggiungendo apici autoriali come i vari “A l’interieur” o “Martyrs” e “Frontiers”, e sconfinando più nel gretto intrattenimento per la massa, non tradisce i motivi e i temi della “nuova Nouvelle Vague”, cercando anche di dire qualcosa di nuovo nel vasto panorama del sottogenere horror – zombie.

Quattro poliziotti decidono di vendicare la morte di un loro compagno penetrando nel covo di un trafficante nigeriano situato alla periferia di Parigi. L’assalto va storto, ma a complicare le cose è l’inizio della fine del mondo. Proprio quella notte, infatti, i morti hanno deciso di uscire dalle tombe e camminare sulla Terra…

“La Horde”, va detto subito, non è certamente uno dei migliori horror degli ultimi anni, ma riesce comunque a confezionare un paio di scene degne di essere annoverate negli annali. Ciò che accompagna la visione di “La Horde”, piuttosto, è una generale disperazione di fondo, trasmessa per mezzo dei protagonisti della pellicola e dei personaggi secondari (il vecchietto del gruppo è uno spasso ed è a tutti gli effetti l’anima del film), che non lascia indifferenti. Yannick Dahan e Benjamin Rocher, del resto, sono giovani e inesperti quanto basta (il primo proviene da un'unica esperienza televisiva, il secondo annovera un cortometraggio) per sopravvivere ai loro alti e bassi: da una parte urlare il proprio malessere e affermarlo con forza con la solita trama apocalittica, e dall’altra condire il tutto con della sana ironia che rimanda a una certa filmografia di registi come John Carpenter.

Forse, una sceneggiatura meno prevedibile e meno votata all’ironia, avrebbero reso il film più avvincente. Così com’è, comunque, rimane un buon esordio con un finale che non dimenticherete e una veduta sulla città di Parigi da mozzare il fiato.

Diego Altobelli (10/2010)

Innocenti bugie

Anno: 2010
Regia: James Mangold
Distribuzione: 20th Century Fox

Cosa può accadere all'ignara passeggera di un aereo quando si ritrova perseguitata da un ex agente dell’FBI? E’ quello che ha cercato di raccontarci James Mangold, regista talentuoso di “Quando l’amore brucia l’anima”, “Cop Land”, “Identity” e del remake di “Quel treno per Yuma”... Della serie: in quanto a curriculum non c’è male.

La vita dell’ingenua June viene letteralmente sconvolta dal misterioso Roy Miller. L’uomo è un agente dell’FBI accusato di aver tradito il proprio Paese e si servirà della donna per provare la propria innocenza e ritrovare una statuetta, contenitrice di una nuova fonte di energia: lo Zefiro. E’ l’inizio di una lunghissima scorribanda in giro per il mondo…

James Mangold deve aver immaginato una moderna favola quando ha letto la sceneggiatura di “Innocenti bugie” (in originale “Knight e Day”), riscrivendo un po’ il mito del principe azzurro (che qui ha le sembianze di un Tom Cruise decisamente sopra le righe) sul suo cavallo bianco (presumibilmente la moto che i due utilizzano a Siviglia nella scena madre del film). E proprio seguendo questa interpretazione, questa lettura che il film di James Mangold si fa apprezzare maggiormente. Oggi, infatti, sembra suggerire la temeraria trama – che si fregia di un’ossatura fatta di sparatorie e inseguimenti – l’uomo perfetto è incarnato in una statuetta (la fonte di energia che motiva la spy story) senz’anima. Gli uomini invece sono decisamente passati da eroi romantici a folli senza speranza. Le donne infine, in questa visione un poco maschilista della pellicola, non hanno smesso di sognare.

C’è dell’altro, naturalmente, perché James Mangold è uno che i film li sa fare, e bene, e lo dimostra ancora una volta reinterpretando di fatto un genere andato in auge negli anni '80 e '90: le spy story d’azione, quelle che per intenderci vedevano una coppia di protagonisti coinvolti in losche vicende poliziesche. E’ il caso ad esempio di “Due nel mirino” (John Badham, 1990), pellicola che ha molte cose in comune con questo “Innocenti bugie”.

Ben vengano insomma questi esperimenti di genere e ben venga James Mangold, che da dieci anni a questa parte non sbaglia un colpo.

Diego Altobelli (10/2010)