sabato 7 luglio 2012

The Amazing Spider-Man

Anno: 2012
Regia: Marc Webb
Distribuzione: Sony

Non ne avevo mai parlato prima, ma c’è un motivo per cui scelsi l’immagine tratta dal film di Sam Raimi per la copertina di questo blog, lo Spider-Man interpretato da Tobey Maguire visto di spalle e senza maschera. Non fu solo l’amore incondizionato per il personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko, ma soprattutto – ed è importante questo concetto per capire il discorso che verrà – l’assoluta onestà intellettuale con cui lo stesso regista Raimi aveva trattato il “tessiragnatele”. Per capire l’importanza del progetto di Raimi, si potrebbe aggiungere che il suo film rilanciò definitivamente il genere fumettistico al cinema, aprendo un vero e proprio nuovo capitolo nella storia della settima arte. Oppure che riuscì a evocare la meraviglia dei fumetti di Lee come mai nessuno aveva fatto prima divenendo un esempio per i successivi colleghi. O ancora che la profondità del film (richiamata nel titolo di questo blog) diveniva un ideale punto di fuga, un ideale e utopico orizzonte infinito di storie e visioni. Come a dire che da quel momento in avanti, dal quel film in avanti, il cinema, grazie alla computer grafica, al 3D e con l’aiuto dei soggetti tratti da fumetti, poteva aspirare all’immortalità. Lo si sapeva forse già prima, ma con quel film tutti, in un modo o in un altro, ne ebbero l’assoluta certezza. Il resto è storia recente. La crisi degli sceneggiatori a Hollywood, il proliferarsi di film tratti dai fumetti, dalle fiabe, dal fantasy. L’utilizzo massiccio di CGI e 3D... Fino a questo drammatico passo indietro. Un intoppo. Una specie di falla. La prova che c’è qualcosa che non va nel cinema contemporaneo. Nel mercato del cinema contemporaneo…

…Sì, siamo arrivati al film di Marc Webb e alla scelta di realizzare un nuovo Spider-Man. Un reboot di cui, a prescindere dal risultato finale, non se ne sentiva il bisogno.

Il sopravvalutato Marc Webb, regista del modesto “500 (giorni insieme)”, viene chiamato a dirigere un nuovo Spider-Man. “The Amazing Spider-Man” approda così nelle sale, dopo il buon risultato ottenuto dagli “Avenger” e quindi sorretto da un traino commerciale non da poco. Si cambia cast: Emma Stone diventa Gwen Stacy; Andrew Garfield diventa Peter Parker; Martin Sheen zio Ben. Qualcosa cambia anche nella trama e il primo cattivo diventa Lizard.

La trama: Peter ha sette anni quando vede andar via i suoi genitori. Accudito dagli zii, il giovane Peter cresce coltivando una passione e un talento per la scienza fuori dal normale. Proprio questa passione lo attira in un laboratorio scientifico dove viene punto da un ragno radioattivo utilizzato per lo studio della rigenerazione nell’essere umano. Peter si risveglia in metropolitana che sa appiccicarsi alle pareti e compiere balzi incredibili. Saranno questi poteri ad aiutarlo contro il temibile Lizard…

Guardando “The Amazing Spider-Man” di Marc Webb sembra di assistere a un incubo. Personaggi stravolti, trame riscritte, incongruenze narrative. Cavolo, persino il costume non è quello! E ancora, assenza di caratterizzazione dei personaggi, che somigliano a figurine (è un Lizard modello Hasbro); romanticismo spiccio (Gwen fa da infermiera a un Peter che entra dalla finestra come si faceva a Dawson Creek); combattimenti privi di mordente (sparatorie, salti, bambini salvati all’ultimo momento). Si ha voglia di dire basta. Basta con un Peter Parker modello bel tenebroso che va in skate e cazzeggia per le vie di New York giocando (giocando) a fare il vigilantes. Basta con una Gwen Stacy trattata come un pacco postale, contesa dal padre e da Peter, senza darle la minima interpretazione emotiva. Basta con un cattivo, Lizard, che sogna di trasformare gli umani in lucertole. Basta, davvero. Ma la cosa si fa anche più grave guardando più a fondo. Registicamente mancano le idee con l’eccezione della soggettiva di Spidey che potrebbe essere interessante, ma che non viene utilizzata abbastanza. Il ritmo scarseggia in una sceneggiatura apatica, priva della voglia di raccontarti la storia. Manca anche l’immaginazione. La meraviglia. Non solo dello spettatore, che, ok, dopo “The Avengers” in effetti forse si è abituato quasi a tutto. Ma soprattutto, di chi interpreta. Mai come in questo caso gli attori protagonisti appaiono tanto boriosi e tronfi. Andrew Garfield è semplicemente la scelta sbagliata. Viso scuro, occhi rancorosi, vagamente snob. Era l’amico “rosicone” in “The Social Network” e ci sarà una ragione. Emma Stone è bella, certo, da morire. Luminosa, calda, ma si perde a causa della sceneggiatura. Il resto anche non va. Lizard non è credibile, né in CGI, né nei panni umani dell’attore Rhys Ifans, già visto in “Anonymous”. Martin Sheen, invece è l’unico a spiccare. Peccato che muore come da copione, e sbagliando la battuta. C’è chi difende la pellicola di Webb sostenendo che il suo film è più vicino alla serie "Ultimates" della Marvel, ma è come nascondersi dietro a un dito. Diranno: questo è più tenebroso, più oscuro, più realistico. Tutte fandonie. Il punto è che qui qualcosa non va a prescindere. Da un punto di vista prima di tutto cinematografico, e poi certo anche fumettistico, di scrittura, come già sottolineato.

La riscrittura, insomma, può essere una sfida, e a Marc Webb e a tutto il cast - tecnico e artistico - va riconosciuto il coraggio. Ma senza cognizione di ciò che si sta facendo si fallisce miseramente. E senza entrare nel merito della comparazione con il primo film di Raimi - perché sarebbe peggio che comparare “Il delitto perfetto” di Hitchcock con il remake di Andrew Davis del 1998 – “The Amazing Spider-Man” è semplicemente un film sterile, di cui non si sentiva il bisogno, fumettistico in senso infantile del termine, nell’accezione negativa. Davvero strano come alla Marvel siano riusciti in questo inaspettato e in un certo senso offensivo (per il pubblico) autogol. Il film di Webb non reinventa niente, piuttosto stravolge senza appassionare. Raimi ci aveva ricordato che il mezzo Fumetto poteva essere spunto per grandi opere, cinematografiche e non. Webb sembra invece voler dire l'esatto contrario. Un pessimo film fatto da un mestierante. Tra le cose peggiori degli ultimi anni.

venerdì 6 luglio 2012

Articolo su Amazing Spider-Man

Mi permetto di postare uno stralcio del bel articolo scritto da un caro amico, che evidenzia alcuni difetti formali e strutturali presenti nell'ultimo "Amazing Spider-Man", un film su cui mi impegno a scrivere una stroncatura come si deve il prima possibile. A dispetto di tutti quei critici (o presunti tali, giovani e non) che sono stati capaci di dare a questo film voti come 8, 9, o anche un 7. Ma ne riparleremo, nel frattempo (come diceva Stan Lee ne suoi editoriali):
"Buona lettura!"
Diego Altobelli (07/2012)

Dal sito 'maurocorso.it'
"...Il caso di Spider-Man poi è eclatante: l’ultimo Spider Man di Raimi prima di questo riavvio è di soli cinque anni fa (2007), mentre il racconto delle origini è di dieci anni fa (2002). Il fatto che Peter Parker sia stato morso da un ragno non mi sembra minimamente definibile come “spoiler” tanto fa parte della cultura popolare. Eppure ancora una volta dobbiamo subirci il morso del ragno, il rapporto tra Parker e gli zii e l’idea che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Salvo poi tradire quest’idea fondamentale nell’ultimo secondo del film (ma non dico il come o il perché: questo sì sarebbe uno spoiler).
(...)
...Il cattivo di Amazing Spider-Man, è cioè Lizard-Man è pessimamente concepito (i cattivi sono importanti!). Ci troviamo di fronte a una specie di lucertola dalle caratteristiche facciali vagamente umanoidi che non è spaventosa, grottesca o anche solo orripilante. E’ semplicemente ridicola nella sua tenerezza quasi involontaria. In questo caso viene il sospetto che il cattivo sia stato scelto non in termini di “appeal” ma in funzione della direzione che si vuole far prendere all’intera trama.
(...)
...Resta da dire ancora qualcosa sul personaggio di Gwen Stacy, forse uno dei più controversi non dell’uomo ragno, ma della storia del fumetto in generale. Nel fumetto (e ripeto: nel fumetto) la morte di Gwen Stacy è un espediente narrativo con cui viene data maggiore profondità psicologica a Peter Parker. Questo aspetto specifico è stato oggetto di critica femminista nella serie di video “tropes vs women”, di cui ho parlato in un altro articolo. In questa analisi, che condivido in pieno, Gwen Stacy è un personaggio sostanzialmente vuoto, un oggetto del desiderio che serve solo a dare un senso alla vita del protagonista solo nel momento in cui scompare. C’è una sostanziale evoluzione nel personaggio di Gwen Stacy? A conti fatti, sembrerebbe di no. Gwen Stacy in questo riavvio dell’uomo ragno è un personaggio bidimensionale, anche una semplice aspetto decorativo nel grande destino del futuro supereroe. Vediamo rapidamente perché. Gwen viene indicata come uno scienziato già di grandi capacità, ma gli unici momenti in cui le vediamo in queste vesti sta: 1) conducendo un gruppo all’interno di un laboratorio, come una guida qualunque 2) facendo un lavoro “da fattorino”, nel momento in cui porta un oggetto da una località “A” a una località “B”. Gwen viene descritta come una persona di rara intelligenza e destinata a una delle migliori università, ma non vediamo mai in azione la sua intelligenza.
(...)
...Ultimo punto: Gwen non è davvero dotata di libero arbitrio e sembra quasi l’oggetto di una “contrattazione” invisibile tra il padre di lei e il suo futuro partner. Questo, dal “Padre della sposa” in poi è un grande classico. In realtà dietro alla gelosia di un padre nei confronti di una figlia c’è sempre qualcosa di profondamente inquietante (anche se proviamo a rendere romantico questo aspetto). La visione ottusamente patriarcale di questa scrittura nega di fatto al personaggio qualsiasi opportunità autentica di sviluppo. Gwen è trattata da pacco e il possesso esercitato su di lei viene scambiato come amore. Ricapitolando, Gwen Stacy è un personaggio debole e innocuo, oggetto al massimo di protezione ma non degno di rispetto da parte delle sue controparte maschili. Peter Parker dice chiaramente di essere il vero scienziato fra i due, per mettere a tacere eventuali equivoci.
(...)
...Amazing Spider-Man (...) E’ però un prodotto estremamente blando nell’intreccio narrativo, lento nella presentazione di presupposti ormai arcinoti e francamente insostenibile nella presentazione di Gwen Stacy. Per quanto riguarda le singole scene, non ne saprei citare nemmeno una davvero memorabile."

Mauro Corso (2012)

L'incredibile storia di Winter il delfino

Anno: 2012
Regia: Charles Martin Smith
Distribuzione: Warner Bros.

E’ uno degli argomenti taboo del Cinema, di quelli spinosi, che non si incontrano spesso: quello relativo ai portatori di handicap. E’ quindi con una certa sorpresa e vaga curiosità che si accoglie il film "Dolphin tale" di Charles Martin Smith, già regista di "Morte a 33 giri", "Air Bud", e "Stone of Destiny". Charles Martin Smith decide di narrarci la storia vera del delfino Winter, che viene trovata morente sulla spiaggia da un ragazzino di 10 anni. Portata al Clearwater Marine Hospital, un ospedale no profit per animali marini, Winter si rivela da subito un caso difficile. La trappola per granchi che l’ha colta di sorpresa le ha quasi reciso la coda. E per evitare che l’infezione si propaghi, tocca amputare. Winter dovrà prima imparare a nuotare senza la propria coda, e poi abituarsi a una protesi. Diverrà un esempio per tutti...

Partiamo dal cast interessante per dire che Ashley Judd torna a recitare al fianco di Morgan Freeman dopo oltre dieci anni. Li ricordiamo insieme nei thriller "High Crimes" e "Il collezionista". Al loro fianco, e a dar man forte al delfino Winter (quest'ultimo nel ruolo di se stesso) troviamo Kris Kristofferson, attore della serie "l’ho già sentito" – e visto, aggiungiamo noi, nella trilogia di "Blade"! - e i due giovanissimi protagonisti Harry Connick Jr. e Cozi Zuelhsdorff, espressivi come due granchi con le chele, e quindi abbastanza a loro agio in piscina.

"Dolphin Tale" aveva diversi spunti interessanti. Il parallelismo uomo – delfino nel film di Smith si fa a tratti più incisivo grazie alla sottotrama del reduce di guerra caduto in battaglia e rimasto offeso alla gamba. Peccato che questo aspetto, come altre evidenti intuizioni sparse nel film, venga oscurato da una sceneggiatura che vola davvero troppo basso. Didascalica (dove ogni scena viene spiegata da una battuta degli attori), prolissa (si passa dal dramma della guerra a quello del delfino, fino all’arrivo di un improbabile uragano e alla fiera organizzata per salvare la chiusura del centro ospedaliero...), diremmo insomma: una sceneggiatura fuori fuoco. E non bastano naturalmente i due bravi Judd e Freeman per rendere il tutto più apprezzabile, anche perché il film di Smith è uno di quelli che vogliono dimostrare di saperci fare, di farti commuovere, di raccontare una grande storia. Tradotto: due ore piene di fischi e fischietti, piantini e inserti musicali per farci sentire da vicino la storia di Winter. Siete avvisati.

Rimangono quindi le idee, molto forti del film, e la storia del delfino Winter. Una di quelle trame - condite con il mondo dell’infanzia, il tema della rivalsa, della natura... - che per assurdo, se fosse stata affrontata da un regista come Steven Spielberg avremmo visto un capolavoro. Così invece è uno sguazzare in acque fredde, arrancare, cercare disperatamente il contatto. Lo troviamo, a sorpresa, quando una bambina di colore sfiora il vetro della piscina dove nuota Winter. Lei ha perso la gamba, l’altra la coda. Tutta l’umanità racchiusa in un gesto.

Diego Altobelli (01/2012)

Sulla strada di casa

Anno: 2012
Regia: Emilano Corapi
Distribuzione: Iris Film

Capita pure che il cinema italiano, di tanto in tanto, alzi la testa e tiri fuori il carattere. Lo fa con audacia e intelligenza il film di Emiliano Corapi "Sulla strada di casa". Thriller hitchcockiano che non solo narra una storia avvincente, ma eccelle anche nell’utilizzare i tempi della narrativa noir. I ritmi, i respiri, i flashback, i cambi di prospettiva, tutto vortica davanti ai nostri occhi verso un finale inaspettato e spiazzante. Non male.

Un giovane imprenditore si ritrova in difficoltà economica e, per questo, chiede aiuto alla malavita organizzata. Per la mafia del sud si offre come corriere della droga, ma qualcosa va storto e sequestrano i suoi cari. L’uomo sarà costretto a vagare per l’Italia alla ricerca di un modo per salvare moglie e i suoi due bambini...

Piccoli film fanno grande il cinema. E’ sempre stato così, e sarà sempre così. La regia di Emiliano Corapi è ispirata, lucida, puntuale, insomma: impeccabile. Bravo soprattutto nel fotografare gli stati d’animo dei personaggi e nel vagare con la telecamere tra le soggettive di questi. Davvero ottima invece la sceneggiatura. "Sulla strada di casa" è un noir che cristallizza chiaramente anche i tempi bui che stiamo vivendo, utilizzando un linguaggio formale fresco e intuitivo, ma mai banale. E al di là delle letture puramente sociologiche, e diciamocelo anche un po’ fini a se stesse, in questo film troviamo (ed è ciò che lo fa spiccare) un’ottima sinergia tra regia e sceneggiatura. Il cinema come incontro e dialogo tra due forme di espressione. Qualcosa che sapevano fare i grandi come Hitchcock e Fritz Lang. Buoni anche gli attori, che risultano affiatati malgrado il film conceda loro poco spazio. Da segnalare anche la carismatica Claudia Pandolfi, che in televisione come al cinema sa lasciare il segno.

"Sulla strada di casa" è un thriller potente. Un esempio di come si possa fare buon cinema. Un noir attualissimo. Da vedere assolutamente.

Diego Altobelli (02/2012)

Safe House - Nessuno è al sicuro

Anno: 2012
Regia: Daniel Espinosa
Distribuzione: UIP

Denzel Washington e Ryan Reynolds formano la coppia di questo “Safe House – Nessuno è al sicuro”, film d’azione piuttosto fracassone diretto da Daniel Espinosa. Il regista, di origini svedesi, negli ultimi anni si è imposto nel panorama cinematografico con i film “Outside Love” e “Easy Money”, riuscendo a togliere persino il primo posto a “Avatar” ai botteghini svedesi. Con “Safe House”, allora, Espinosa punta a imporsi anche a Hollywood. Le carte in mano ce l’ha. Tocca vedere cosa si va a pescare.

Tobin Frost (Denzel Washington) è uno dei maggiori ricercati della C.I.A.. Ex agente, Frost viene infine catturato da una squadra speciale e portato nella Safe House: un posto segreto che la C.I.A. usa per interrogare e “proteggere” testimoni scomodi. Alla Safe House, Frost incontra Matt Weston (Ryan Reynolds), un agente in attesa di ricollocamento. Sarà proprio Weston a proteggere l’uomo quando nella House farà irruzione un gruppo di terroristi decisi a eliminare Frost...

Sembra un ideale seguito di “Training Day” (Antoine Fuqua, 2001 - che valse l’Oscar a Washington) questo “Safe House” del misconosciuto Espinosa. Anche in questo caso infatti abbiamo una coppia formata da un veterano corrotto e uno sbarbatello pieno di buoni propositi. Nel film di Espinosa però manca forse l’elemento umano che caratterizzava la trama di “Training Day”. In “Safe House” è tutto un po’ troppo carico. Senza un attimo di tregua è un susseguirsi di inseguimenti, sparatorie, scazzottate a reggere una trama che in definitiva non fa altro che echeggiare il detto shakespeariano “C’è del marcio in Danimarca”. Al di là della trama modesta però, possiamo godere di una buona regia che usa con dimestichezza soluzioni cinetiche per rendere l’effetto di velocità dettata dalla sceneggiatura. Il risultato è gradevole e il film, un inquietante sguardo sulla nostra sicurezza, fila liscio senza sbavature.

Non si vedevano così tanti morti ammazzati dai tempi di “Die Hard – 58 minuti per morire”, e questo farà la gioia degli amanti del genere. A tutti gli altri, rimane di godere delle prove di Denzel Washington e Ryan Reyolds. Washington immenso, lascia il segno con una interpretazione che calza perfetta. Reynolds forse ancora troppo pulito dopo tutto quello che succede, ma si capisce che anche l’occhio vuole la sua parte e va bene così.

Diego Altobelli (03/2012)

Due partite

Anno: 2009
Regia: Enzo Monteleone
Distribuzione: 01 Distribution

Un cast di sole donne per quello che potremmo definire il "The Women" (George Cukor, 1939) di casa nostra.

"Due partite" vede due generazioni di donne, quattro madri e quattro figlie, discutere e confrontarsi sull’argomento "donna". A legarle, oltre la stretta parentela, anche una ipotetica partita a carte giocata nel medesimo salotto. Dagli anni Sessanta della prima generazione si passa agli anni Novanta della seconda. I colori vanno via, la gioia ha lasciato il posto alla drammaticità della morte, ma gli argomenti e i dubbi sono sempre gli stessi...

La commedia teatrale firmata da Cristina Comencini, da cui questo film trae ispirazione, ha realizzato a ogni replica il tutto esaurito. Reduce di tale successo, la casa di distribuzione Cattleya porta sul grande schermo la medesima commedia cambiando poco o niente all’opera originale. Le differenze sono infatti sostanzialmente due. La prima è che a dirigere questa versione v’è un uomo, Enzo Monteleone, autore soprattutto di fiction e documentari. La seconda è che il cast si è, felicemente, arricchito di quattro nomi e cioè della energica Carolina Crescentini, la combattiva Claudia Pandolfi, la bella Alba Rohrwacher e la cinica Paola Cortellesi. Le quattro che avevano recitato a teatro, invece, permangono Margherita Buy, Isabella Ferrari e Marina Massironi nel medesimo ruolo di mamme e con Valeria Milillo nel ruolo, questa volta, di una delle figlie.

Le differenze si esauriscono qui e, purtroppo, insieme agli argomenti. Il fatto che la commedia teatrale della Comencini abbia riscosso un notevole successo non è, di per sé, sinonimo di qualità, soprattutto considerando la crisi nera che ha colpito anche il mondo dello spettacolo e primo fra tutti proprio il teatro. A ben vedere, l’opera della Comencini tratteggia figure femminili tagliate con l’accetta, banalotte e legate a un’idea di "donna" profondamente maschilista e priva di spessore. Donne mamme, insicure, all’inseguimento di un’affermazione nella vita che non arriva mai, né dall’amore né dal lavoro. Figure più che altro impalpabili e stereotipate che richiamano un immaginario femminile noiosamente arcaico.

Inoltre, non v’è emozione nel testo. Tutto ci viene raccontato, ma nulla è vissuto, nemmeno la morte. Rimpiangiamo Goldoni, Ibsen e Checov. Ricordiamoci "La locandiera", "Casa di bambola", e "Tre sorelle". Prima di questo cinema compiaciuto e di un teatro senza spessore c’erano loro, con le loro opere e la loro storia. Gli addetti ai lavori si facessero un bel ripasso.

Diego Altobelli (2009)

L'amore secondo Dan

Anno: 2008
Regia: Peter Hedges
Distribuzione: Eagle Pictures

Prima di essere un regista, Peter Hedges è un drammaturgo e uno scrittore. Suoi sono i romanzi “What’s eating Gilbert Grape” e “An ocean in Iowa”, entrambi ispiratori di altre pellicole. In effetti ciò che colpisce fin dalle prime battute del film “L’amore secondo Dan” è la sceneggiatura e la generale sensazione di essere ben scritto, stessa suggestione che del resto si aveva guardando anche il primo film di Peter Hedges: “Schegge di April”, con Kate Holmes.

Dan è un padre premuroso, rimasto improvvisamente vedovo, che dedica le sue giornate a prendersi cura delle sue tre figlie. Quando Dan decide di far visita alla sua famiglia per riunirsi nel weekend, conosce Anne Marie, donna affascinante e bellissima di cui subito si innamora. Peccato però, che la donna sia già legata sentimentalmente al fratello di Dan...

Proprio gradevole questo “L’amore secondo Dan”, malgrado un inizio zoppicante per essere una commedia. In punta di piedi, infatti, lasciando che sia spesso la musica ad accompagnare le scene, il personaggio di questo padre apprensivo e un pochino bigotto, emerge un pezzo alla volta mostrandosi solo alla fine in tutta la sua complessità: e questo aspetto, cioè la sensazione che la sceneggiatura sia ben studiata perché consapevole di dove vuole andare a parare, è ciò che più convince lo spettatore. La regia di Peter Hedges, malgrado abbia solo un altro film al suo attivo, dimostra di essere già molto matura e di possedere una propria impronta distintiva: caratteristica, questa, affatto scontata. Come in “Schegge di April” infatti, Hedges fa parlare le situazioni, gli spazi, e i gesti. E su questi elementi tratteggia tutti i numerosi personaggi che contornano la vicenda, senza mai apparire retorico o scontato, ma al contrario naturale e sincero. Molto bravo il protagonista Steve Carell, interprete di “40 anni vergine”, che dimostra di riuscire a gestire molto bene i personaggi “comicamente controversi”. Sempre immensa invece Juliette Binoche, che regala inaspettatamente alcuni momenti davvero spassosi. “L’amore secondo Dan” appassiona, diverte ed emoziona. Una commedia molto intelligente, scritta e diretta da un talento di nome Peter Hedges.

Diego Altobelli (2008)

Arthur e la guerra dei due mondi

Anno: 2011
Regia: Luc Besson
Distribuzione: Moviemax

A Luc Besson si deve l’idea di aver creato un microuniverso parallelo al nostro in cui vivono i Minimei, creature alte al massimo due millimetri che popolano il sottosuolo. Si è giunti al cinema quindi al terzo capitolo di questa trilogia a misura (è il caso di dirlo!) di bambino. E se il primo e il secondo episodio esaltavano la computer grafica, in questo terzo capitolo si tenta il cosiddetto "colpaccio", trasferendo i personaggi fiabeschi nel mondo reale. "Arthur e la guerra dei due mondi" è quindi innanzitutto l’unione di due mondi, appunto. Il live action del cinema e l’immaginario della computer grafica.

Il perfido Maltazard è ormai alto due metri e dieci e si accinge a conquistare la Terra. Solo Arthur, Selenia e Betameche possono fermarlo. Sempre che riescano a fuggire dalle grinfie di Darkos, figlio di Maltazard...

Considerati i numeri, Arthur si è rivelato una vera e propria "fortuna" per Luc Besson e il suo staff. I meriti, in effetti, sono soprattutto nel aver saputo investire (e di conseguenza sfruttare) la computer grafica, rendendo la saga del piccolo Arthur, effettivamente la più completa, affascinante e accattivante creazione europea nel campo dell’animazione. Tanto da poter competere con Pixar e Dreamworks abbastanza alla pari. Manca la complessità narrativa, va bene. Mancano gli spunti davvero originali, va bene anche questo. Però innegabilmente, con la sua ingenuità, e volendo pure una certa vena naif, alla fine Arthur conquista il pubblico di tutte le età. Gli escamotage sono quelli: l’inseguimento in soggettiva, la spada magica, il cattivo incompreso, l’amicizia che lega i tre protagonisti... Ma con lo spirito americano che caratterizza Besson, un pizzico di anni Sessanta (periodo in cui la storia si ambienta) e qualche citazione ben collocata all’interno di discorso vagamente ecologista, il tutto si fa davvero piacevole. Un film divertente.

Diego Altobelli (12/2011)

Benvenuto a bordo

Anno: 2012
Regia: Eric Lavaine
Distribuzione: Eagle Pictures

Gli italiani hanno un gusto tutto macabro nell’adattare i titoli dei film stranieri per il proprio mercato. E’ sempre stato così, ma oggi è ancora più evidente all’indomani della catastrofe della Concordia e della celebre, triste vicenda legata al comandante Schettino. Per riderci su (si fa per dire) godiamoci quindi questo impalpabile, debole, fiacco, prevedibile e statico "Benvenuto a bordo". Il solito viaggio nella comicità, guidato da un protagonista buffo.

Isabelle si vendica del suo capo traditore assumendo Remy, quarantenne scapestrato con un curriculum... esile. Poco male, per fare l’animatore sulle navi da crociere servono soprattutto energia, umorismo e vitalità, tutte cose che a Remy non mancano. Ne combinerà delle belle, ma lo adoreranno tutti...

La nave ondeggia, così come il quarto lungometraggio del regista Eric Levaine (che ricordiamo soprattutto per aver avuto il coraggio di dirigere la parodia gay di "Poltergeist" ovvero: "Poltergay"). Si dondola alla ricerca di un equilibrio formale. Si cercano i tempi del genere, si cercano i toni, le battute, i respiri narrativi: tutte cose che effettivamente latitano in alternanza in "Benvenuto a bordo". Sembra di assistere a una di quelle commedie dove ridono solo certe signore un po’ attempate, vagamente snob, che collegano il genere commedia alla farsa. Il cast buono, tra Italia e Francia, dove a guidare la nave scopriamo la nostra Luisa Ranieri che però recita poco più di una manciata di battute, non serve a risollevare il morale a bordo. Il resto è di mestiere e nella sufficienza. E tralasciando il discorso doppiaggio, in questo caso poco incisivo, di sufficienza si parla anche nel modo di intendere l’umorismo: va bene la leggerezza, ma manca l’equilibrio, come si diceva, e alla fine viene la nausea.

Diego Altobelli (06/2012)

Paura

Anno: 2012
Regia: Manetti Bros.
Distribuzione: Medusa

Sempre bravi i Manetti Bros. Dopo "L’arrivo di Wang", e "Piano 17" i due fratelli romani che hanno iniziato girando videoclip a budget zero firmano un altro lavoro di tutto rispetto. Interrogandosi ancora sul genere thriller, dirigono un film che diverte e appassiona.

Tre ragazzi della borgata romana decidono di fare una bravata: infiltrarsi nella villa di un marchese in assenza del padrone di casa. Lì, hanno la possibilità di dare sfogo a tutti i loro più ingenui desideri: tuffarsi in piscina, mangiare e bere fino a scoppiare, insomma, divertirsi e dimenticare le loro origini e le loro vite di periferia. Almeno fino a quando non si avventurano nel sottoscala...

Lo strano effetto che si ha guardando i film dei Manetti Bros. è più o meno sempre lo stesso. Ovvero quello di vedere un film amatoriale, però ben fatto. La recitazione è sempre sotto la media, benché in questo caso a dar man forte al lavoro arriva niente meno che Peppe Servillo: divertito, cattivo, manieristico. Le musiche vagano da pezzi rap, ad altri di ambiente. La narrazione echeggia il torture porn giapponese (qualcuno si ricorda "Grotesque"?), omaggiandolo qua e là, e lo splatter anni ’70. Tutto va a ricordare qualcosa d’altro. Manca il guizzo, allora, la vena davvero autoriale. Si premia il coraggio, la voglia di sperimentare, quell’entusiasmo tipico di chi manipola la materia artistica per la prima volta. Ma dai fratelli Manetti, Marco e Antonio, è ormai lecito aspettarsi qualcosa di più del mero giocattolino di genere. Se fossimo a scuola, fingendoci maestri noi, avremmo detto che avrebbero preso un 7, ma per motivarli gli daremo solo la sufficienza.

Diego Altobelli (06/2012)

C'era una volta in Anatolia

Anno: 2012
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Distribuzione: Parthénos

Qualcuno si ricorderà del film "Le tre scimmie" premiato a Cannes nel 2008, ora lo stesso regista propone un’altra opera poetica ma sontuosa, malinconica ma crudele. Il turco Nuri Bilge Ceylan dirige un thriller atipico, un poliziesco libero da ogni condizionamento di genere.

Un commissario e la sua squadra di poliziotti, procuratori e medici legali, scortano il sospettato di un delitto sul luogo dove avrebbe sepolto un cadavere. Il viaggio dura una notte, ma funge da alibi ai personaggi per riflettere sulle loro vite. Alla fine l’oscurità incontrerà l’alba, e questa non darà redenzione a nessuno...

Diviso in tre parti, ognuna delle quali dedicate a uno dei personaggi principali, il film è un difficile rompicapo sull’esistenza umana, portato avanti con dei dialoghi che somigliano a delle confessioni.
Si parla della vita, dell’amore, della morte. I personaggi si interrogano su una infinità di argomenti, sempre nell’oscurità, sempre con lo stesso tono rassegnato. Come in un’opera teatrale, i personaggi non esprimono sentimenti violenti, ma quieti e arrendevoli. I dialoghi sembrano voler costruire un unico lungo monologo senza soluzione. E la spiegazione, del caso di omicidio come della vita, troverà solo l’attesa.

Nuri Bilge Ceylan tratteggia un piccolo, grande capolavoro esistenziale, come il "C’era una volta in America" di Leone, ma al suo modo, con i suoi tempi, e chiedendo al pubblico uno sforzo immane per superare questo viaggio in una selva scurissima e desolata. Una candela illumina il viso di una donna in un universo fatto di soli uomini. Una strada si allunga verso il nulla. Un cadavere aspetta di essere riconosciuto. Un film visivamente splendido, quasi ipnotico, e un Cinema, quello di Ceylan, che somiglia a quello di un Tarkovskj.

Esistenziale, attendista, dilatato. Fatto di capolavori indiscutibili e di profonda disperazione.

Diego Altobelli (06/2012)

Un amore di gioventù

Anno: 2012
Regia: Mia Hansen-Love
Distribuzione: Teodora Film

L’amore, giovane, inquieto, tormentato, raccontato con spietata delicatezza dalla regista Mia Hansen-Love, guardando a Truffaut e Bresson. Una specie di summa del cinema francese. Preparatevi ad essere toccati.

Quindici anni lei, diciannove lui. L’amore di gioventù deve arrendersi di fronte al trascorrere del tempo e alle scelte di vita. Camille ama Sullivan, ma lui preferisce partire per il Sud America. E’ il dramma. Rimasta sola e sulla via della depressione, la ragazza conosce poi un professore di architettura. Si innamora, ma è un abbaglio, e il ritorno di Sullivan lo dimostrerà...

Micidiale amplesso sentimentale che volteggia sulle ali del dramma. Un po’ "Tempo delle mele", un po’ "Il diavolo probabilmente" e poi ancora citazioni come se piovessero, passando per i vari Truffaut e Rohmer, per il terzo film della regista Hansen-Love "Un amore di gioventù". Micidiale, si diceva, perché da una parte si rimane estasiati, letteralmente, di fronte alla naturalezza dei corpi (eterei i due attori Lola Creton e Sebastian Urzendowsky) e dei sentimenti che questi esprimono. Sembra un ritorno alle origini, a un Cinema, francese ma non solo, che effettivamente non c’è più. Fatto di attese, di sguardi, di corpi (nudi), e di quel trascorrere del tempo che è allo stesso tempo diegetico e fuori dalla narrazione.

Altri registi recentemente ci hanno provato, pensiamo a "(500) giorni insieme" o a "Like crazy", ma evidentemente l’amore come lo si racconta in Francia è tutta un’altra musica. Da una parte incantati, ricollegandoci, dall’altra un po’ affranti, stanchi, in attesa di quel guizzo, di quel colpo di coda narrativo che, in effetti, non arriva mai. Un peccato per alcuni, geniale per altri. Per tutti un film che non lascia indifferenti, malgrado il doppiaggio e il consiglio (tutto nostro) di goderselo in lingua originale.

La Hansen-Love ci ricorda che il Cinema è e rimane una esperienza che parte soprattutto dal cuore. E “Un amore di gioventù” è un piccolo capolavoro di oggi.

Diego Altobelli (06/2012)

Quell'idiota di nostro fratello

Anno: 2012
Regia: Jesse Peretz
Distribuzione: Videa

Jesse Peretz abbandona momentaneamente la musica per dedicarsi al cinema, sua seconda passione. Fondatore dei Lemonheads, il bassista rock si sta facendo il nome come regista di commedie a Holllywood. Dopo "Ex" del 2007, arriva al Sundance Film Festival con "Quell’idota di nostro fratello".

Ned torna a casa dalla madre e dalle tre sorelle dopo aver passato del tempo in carcere con l’accusa di spaccio e corruzione di un pubblico ufficiale. Farsi accettare dalla comunità e sistemare le problematiche di casa non sarà per niente facile...

Noiosetto "Quell’idiota di nostro fratello", che vorrebbe essere un’acuta riflessione sulla società contemporanea, ma che finisce per annegare in un mare di luoghi comuni. L’idiota del film è l’attore Paul Rudd, che non riesce a mentire in un mondo che invece fa della finzione il proprio regno. Tra sorelle lesbiche, frustate e ansiose, la regia di Peretz fa del suo meglio per non indugiare in stereotipi del genere. Ci riesce in modo altalenante, malgrado pure il sostegno del buon cast di attrici e attori. Il già citato Rudd tiene bene la posizione, e al suo fianco troviamo diverse attrici in parte. Elizabeth Banks, Emily Mortimer, ma soprattutto la brava Zooey Deschanel, riescono a dar vita a un universo famigliare problematico, ma credibile e a tratti anche toccante.

Peccato per questo "Quell’idiota di nostro fratello", film che annoia trainato dal vento di una regia troppo spesso fastidiosamente piatta. Qualche spunto interessante c’è, ma forse non se ne sentiva il bisogno, soprattutto perché il cinema è colmo di commedie a sfondo famigliare. Jesse Peretz sembra non tenerne conto, ed è anche per questo che il pubblico lo vedrà, forse pure bonariamente, ma in DVD, distrattamente, come sottofondo per la cena.

Diego Altobelli (06/2012)

I Muppet

Anno: 2012
Regia: James Bobin
Distribuzione: Disney

Dice: dov’erano finiti? Non si sa in effetti... fatto sta che ora ce li ritroviamo al cinema in grande spolvero. Stiamo parlando dei Muppet, gruppo fracassone di pupazzi parlanti creati da Jim Henson nel lontanissimo 1956. E già, di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. Ai più giovani i nomi di Kermit la rana, Miss Piggy e Fozzie non diranno granché, eppure questi pupazzi "bruttarelli" sono stati protagonisti di due lunghissime trasmissioni televisive di grande successo. Marionette sì, ma anche comici, intrattenitori, ballerini... insomma, roba forte.

Il film diretto da James Bobin vuole allo stesso tempo rispolverare i Muppet, rilanciarli e attualizzarli, e ricordare i tempi d’oro dove i Muppets avevano persino un parco studio a loro dedicato nel cuore di Los Angeles. Per farlo, vaghiamo insieme a Gary, Mary (Amy Adams) e Walter alla ricerca della "vecchia banda" per realizzare un Telethon e raccogliere i fondi necessari per salvare gli studios dei Muppet dalle grinfie del malefico Tex Richman (Chris Cooper)...

Arriviamo alle noti dolenti. Sarà il ritmo non proprio incalzante; sarà la sceneggiatura ibrida di ironia e nostalgia; o sarà la sensazione di trovarsi fuori tempo massimo, fatto sta che questi Muppet, così come ci vengono (ri)presentati proprio non sono al passo. Tutto sommato non era difficile immaginarlo, ma ora i dubbi sono una certezza. Il più grande errore del film di Bobin sta nel cercare di ricreare in pellicola la stessa ironia dissacrante dello show televisivo. Altri tempi, altri meccanismi, altro modo di vedere il Mondo. Insomma, non ci siamo. Gli stacchetti musicali sono legnosetti. Le gag stantie. La trama inconsistente. La recitazione praticamente assente malgrado Amy Adams (molto più in parte in Come d’incanto), Chris Cooper e i vari cameo di Jack Black, Woopi Goldberg e compagnia… Siamo dalle parti della beneficenza.

Diego Altobelli (2/2012)