martedì 27 ottobre 2009

Rec 2

Anno: 2009
Regia: Juame Balaguero e Paco Plaza

Raramente un seguito riesce ad essere più avvincente del primo episodio. Questa sembra essere una regola d'oro del cinema, ed è quasi un dogma se viene applicata nel genere horror. Ma come si sa, ogni regola ha la sua eccezione, e in questo caso l'eccezione si chiama Rec 2.

Comincia esattamente da dove era finito il primo episodio. Una giovane reporter viene risucchiata da una creatura nel buio di una palazzina dopo che questa è stata chiusa e sigillata per motivi di sicurezza nazionale. Infatti, all'interno di quelle mura è stato rilasciato un terribile virus che pare dia alle persone contagiate i sintomi della rabbia. Ma non tutto è quel che sembra. Se ne accorgerà a sue spese la squadra di recupero inviata dalle forze di sicurezza nazionali...

Il primo Rec era piaciuto perchè, insieme all'idea di una soggetiva continua molto simile a quella utilizzata per il celeberrimo The Blair Witch Project, riusciva a catturare lo spettatore grazie a una suspance dosata sapientemente, un ritmo convulsivo, e scene di paura davvero impressionanti. Però, era davvero difficile pensare che dopo questa prima fortunata prova il duo di giovani registi (appena trentenni) Juame Balaguero e Paco Plaza potesse dirci qualcosa di nuovo sul fronte narrativo e stilistico. E invece si sono riusciti.

Visivamente parlando Rec 2 sfiora la perfezione. Maniacale l'attenzione ai dettagli, ogni inquadratura sembra essere l'esito di uno studio accurato e calcolato. Non c'è spazo, inoltre, per i momenti di pausa, e il film è un continuo fluire di colpi di scena e scene di sangue. Senza tregua. Insomma, un film che piacerà a tutti gli appassionati del genere. Sulla trama non vogliamo aggiungere altro per non rovinare l'inquietante sorpresa.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2085

Basta che funzioni

Anno: 2009
Regia: Woody Allen
Distribuzione: Medusa Film

Boris Yelnikoff è un ex fisico di fama mondiale anziano, burbero e annoiato dalla vita. Ha un matrimonio fallito alle spalle. Un suicidio mancato. E un mancato premio Nobel. Insomma, Boris vive considerandosi un fallito, ma senza ammetterlo a se stesso. Per ovviare a questa frustrazione insegna persino scacchi ai bambini in modo da poter sfogare su di loro le sue insofferenze. Un giorno però incontra Melody, una miss di provincia che vive senza dimora per le vie di New York. Tra loro nascerà un rapporto particolare...

Woody Allen torna a New York e alla sua Manhattan dopo il tour europeo che lo ha tenuto distante per ben quattro film. E lo fa adattando una commedia che aveva concepito più di dieci anni fa per un attore ora scomparso. A rimpiazzarlo arriva Larry David, noto comico americano.
"Basta che funzioni" dividerà il pubblico e la critica. Se da una parte infatti Allen ritorna a parlare dei temi a lui più cari (l'ipocondria, l'amore, il sesso, il trascorrere del tempo) con una sceneggiatura scoppiettante e piena di battute "geniali", dall'altra è innegabile che il regista di "Io e Annie" non ha più lo smalto di un tempo, che i dialoghi suonano già sentiti e che le retoriche intellettuali sembrano più deliranti che pungenti.

La storia, del resto, è un clichè: lui, anziano intellettuale, si lega a una ragazza molto più giovane che ha voglia di vivere a pieno i suoi anni. Il conflitto che si crea porta i toni dell'autobiografia. Il risultato è un film divertente, stilisticamente impeccabile, ma di cui non si sentiva strettamente il bisogno.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2094

Motel Woodstock

Anno: 2009
Regia: Ang Lee
Distribuzione: Bim

Il Leone d’Oro Ang Lee, insieme al collaboratore di sempre James Schamus, sceneggia e dirige Motel Woodstock. Tratto dall’omonimo romanzo biografico, il film narra dei Theichberg, una famiglia che, per evitare il fallimento e il relativo pignoramento del proprio Motel, decide di trasformarlo nella “base” organizzativa per un concerto. Saranno “3 giorni di Pace e Musica”…

Storia di un concerto mai visto. Motel Woodstock è in realtà la storia di una famiglia, di un'unione, di un'utopia. Ang Lee, nel narrarne gli aspetti e contestualizzarli nel periodo sessantottino di Woodstock, opta per la commedia e il racconto “da viaggio”. C’è tutto: la necessità iniziale di rimboccarsi le maniche e i preparativi; la partenza; la scoperta del tragitto; la meta e la trasformazione. E in questo particolare on the road (dal Motel al palco, andata e ritorno) il giovane protagonista Eliot (un promettente Demetri Martin) cresce e trova il modo di diventare ciò che vuole essere. Lo scontro generazionale e il conseguente confronto con i genitori è inevitabile (magnifica la battuta del padre che alla domanda del figlio su perché abbia sposato la madre risponde: “Ovvio, perché la amo”), così come la scoperta di un mondo nuovo e “allucinante”, ma non per questo cattivo. Anzi. Tutte le scoperte di Eliot (non ultime quelle sessuali) vengono affrontate con occhio disincantato e distante. E alla fine proprio del concerto di Woodstock (pur non vedendolo mai), in qualche modo, si capisce cio' che esso ha rappresentato per il regista. Un viaggio di crescita universale e irrinunciabile che nel bene e nel male (come il viaggio sulla Luna, citato nel film) ha segnato la storia.

Ottimi gli interpreti come il già citato protagonista Demetri Martin, la madre Imelda Staunton e Henry Goodman nel ruolo del padre. Sempre incredibili invece Emile Hirsch (Into the wild) e Liev Schreiber (X-men: le origini - Wolverine).

Ang Lee ci regala con Motel Woodstock una commedia disincanta e non banale, in cui la prima parte risulta più fluida della seconda, invece più sotto tono. Ma si sa, in un viaggio, l’andata è sempre meglio del ritorno.

Vai allo speciale sul cinema della contestazione

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2107

The warrior and the wolf (Lang Zai Ji)

Anno: 2009
Regia: Zhuangzhuang Tian

Il regista del buon biografico The Go Master (presentato proprio a Roma nella prima edizione del Festival del Cinema) Tian Zhuangzhuang torna nella quarta edizione con un film dalle venature fantasy e le ambizioni horror.

Cina, Impero Han. Lu, un giovane guerriero succede al generale Zhang per la guida dell’esercito. Finita la guerra, Lu torna a casa, ma durante il suo cammino incontra una donna che lo inizia alle pratiche degli uomini lupo…

Troppo ambizioso questo Lang Zai Ji (The warrior and the wolf). Il registro narrativo pedante e la narrazione piuttosto criptica rendono la visione del film di Tian Zhuangzhuang più che altro noiosetta e adatta solo ai patiti del genere wuxia (di cui questo film può rappresentare un interessante variabile) e agli amanti sfegatati delle storie sui licantropi. Purtroppo, tutti gli altri dovrebbero tenersene alla larga.

Peccato per la buona regia, molto evocativa (il regista il talento ce l’ha), la buona fotografia e il buon uso del montaggio, tutte cose che se inserite nella giusta storia, avrebbero dato vita a un piccolo capolavoro. Invece, The warrior and the wolf è un nulla di fatto. Fallimentare come affresco storico. Debolissimo come horror. In una parola: stancante. Era meglio The Go Master, dove si raccontava la storia vera del maestro degli scacchi cinesi...

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-The_Warrior_and_the_Wolf_Balla_con_l_uomo_lupo-3437.html

The Go Master

Anno: 2006
Regia: Zhuangzhuang Tian

Dal lontano "Oriente" arriva questa pellicola biografica diretta dal regista Tian Zhuangzhuang, apprezzato autore di pellicole drammatiche. In "The Go master"il regista cinese decide di raccontare, con toni asciutti ma accorati, la vita di Wu Qingyuan, l'uomo che ha diffuso la cultura del gioco del Go in tutto il Giappone fino a istituirne una setta a lei legata e seguita ancora oggi da milioni di fedeli.

Il Go, spiegato brevemente, è una sorta di scacchi con valenze filosofiche: la tavola del gioco è composta da una griglia quadrata suddivisa da una ragnatela di linee orizzontali e verticali; si affrontano due giocatori, il primo detiene le pedine nere, il secondo quelle bianche; lo scopo del gioco è riuscire a conquistare più spazio, con le proprie pedine, sulla tavola di gioco. Nel Go l'obiettivo finale non è l'annientamento dell'avversario quindi, ma la conquista dello spazio, inteso sia come territorio da occupare fisicamente, sia come imposizione della propria mente su quella dell'avversario. Proprio questa doppia valenza simbolica fa avvicinare il gioco alla filosofia orientale e alle idee di mente e corpo ad essa legata.

Lunga divagazione sulle regole del gioco su cui il film è incentrato "dovuta", poiché il film di Tian Zhuanzhuang non lo fa, limitandosi a raccontare, con attento piglio storico, la storia del conflitto Cina- Giappone tra il 1940 e 1950 unita alla vita del giovane Wu. La più grande critica che si può rivolgere a "The Go master" infatti è proprio quella di rivolgersi ad un numero troppo ristretto di persone. Senza esagerare ci sentiamo di affermare che solo chi conosce il gioco del Go, seppur a grosse linee, e l'ambito storico in cui questo si è diffuso, può apprezzare appieno una pellicola che, oltretutto, non si discosta troppo dalla mera cronaca. Non bastano nemmeno gli inserimenti didascalici degli scritti del maestro Wu Qingyuan a dare un'idea più chiara e "sentita" della storia. Ed è un peccato. Un peccato perché le valenze simboliche presenti nel film sono proprio tante: dal parallelismo tra Cina e Giappone contrapposto alla visione di bene e male presenti nella cultura del Go, fino ad arrivare al concetto di esistenza stessa, messa a dura prova dai continui tentativi di suicidio del giovane. A questi aspetti significativi il film affianca, inoltre, una fotografia che regala alla pellicola delle connotazioni "mistiche": scene come l'attraversamento in mare di Wu con l'oceano che semplicemente invade tutto lo schermo, o i lunghi silenzi, tipicamente orientali, compagni di attese ancora più lunghe. Una regia composta quindi, a tratti molto dettagliata, ma troppo costretta nel suo ruolo biografico. Storico.

Senza equivoci però: il film di Tian Zhuangzhuang è ben diretto e ben interpretato, accompagnato da una fotografia efficace e una storia comunque affascinante, ma ineluttabilmente sfugge allo spettatore comune... come una pedina dal proprio avversario.

Diego Altobelli (10/2006)
estratto da http://filmup.leonardo.it/thegomaster.htm

Negli occhi

Anno: 2009
Regia: Francesco del Grosso
Distribuzione: 01 Distribution

Colpisce molto questo Negli occhi, documentario sulla vita di Vittorio Mezzogiorno, venuto a mancare a causa di un infarto il 7 gennaio 1994. Colpisce come un cazzotto, se si volesse fare una battuta poco felice. Ma è vero. Negli occhi, diretto a quattro mani da Daniele Anzellotti e Francesco Del Grosso, commuove ed emoziona. Va al punto. Arriva al cuore.

Merito probabilmente anche della scelta, molto intelligente e per nulla banale, di raccontarci l'uomo, e non l'artista. Attraverso le testimonianze di amici come Gianni Minà e Michele Placido (proprio con quest'ultimo Mezzogiorno condivise il ruolo principale nella serie televisiva di culto La Piovra), che lo ricordano come un amico e un confidente. E attraverso la voce narrante di Giovanna Mezzogiorno, la figlia che non l'ha mai dimenticato. Toccante.

Le musiche, altrettanto coinvolgenti, sono firmate da Pino Daniele, e accompagnano idealmente lo spettatore in questo viaggio della memoria. Vittorio Mezzogiorno ha interpretato numerosi ruoli, e ha saputo spaziare tra i generi, passando dal poliziesco e arrivando al film d'autore. Un artista a tutto tondo, quindi, di cui però in questa pellicola non vediamo le gesta attoriali. La scelta ipnotica dei due registi di parlare di Vittorio Mezzogiorno come uomo, si rimette a quella vincente di mostrarci foto e documenti della vita privata. Passando pure per retroscena dolci e amari. Un dietro le quinte che diventa un affresco elegante e commovente. Un film intenso, quanto l'uomo che racconta.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-Negli_Occhi_Colui_che_guardo_il_cinema_dritto_negli_occhi-3044.html

Metropia

Anno: 2009
Regia: Tarik Saleh

Tra le cose più interessanti viste finora al festival di Venezia 2009 c’è certamente questo Metropia, lungometraggio a tecnica mista di animazione firmato dallo svedese Tarik Saleh.

In un futuro non troppo lontano il Mondo è controllato dalla multinazionale Traxx, società che è stata in grado di rivoluzionare il sistema dei trasporti dell’intero pianeta. Infatti, poiché in superficie l’aria si è fatta via via sempre più irrespirabile, le persone sono costrette a spostarsi da una città a un’altra usufruendo della metropolitana. Da Roma a Stoccolma, da Parigi a Madrid, una lunga e fitta rete di ferrovie sotterranea collega l’intera Europa. Roger, un semplice impiegato, si rifiuta di sottostare al sistema. Comincerà ad essere perseguitato da una voce che gli parla nel cervello…

C’è molto in Metropia, film che deve tantissimo all’eredità lasciata dai vari Orwell, Asimov, Lang e Dick. Dall’idea del controllo mentale, a quella di far parte di un enorme spot pubblicitario, da quella del controllo sulla società fino ad arrivare al doppio e alla paranoia che genera nell’individuo "cose" tipo il capitalismo, Metropia certamente mette molta carne al fuoco. E questo, con ogni probabilità, è anche il suo più grande difetto.

Infatti, se da una parte il film conquista per una resa grafica molto efficace e suggestiva e un’idea di fondo affatto banale, dall’altra si perde in una sceneggiatura che malgrado le apparenze, rimane in superficie. Divenendo tutt’al più una specie di omaggio alla fantascienza tout court. Peccato.

A prestare volto e voce ai protagonisti troviamo due grandi dei nostri tempi. Vincent Gallo e Juliette Lewis che riescono a rendere credibili le paure e le paranoie dei protagonisti. Il finale stile manga dove tutto si risolve con una bella esplosione, però, non piace e rimane il gusto amaro di una occasione mancata.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-Metropia_Ho_visto_metropolitane_che_voi_umani_non_potete_immaginare-2973.html

The Last Days of Emma Blank

Anno: 2009
Regia: Alex van Warmerdam

Grottesco. Cattivo. Ironico. Pungente. Tutti aggettivi che potremmo attribuire a "The last days of Emma Blank", commedia nera firmata da Alex van Warmerdam. Che l’autore provenga da una formazione teatrale è palese non solo nella trama, ma anche nella messa in scena. I toni della pellicola, a volte più neri, altre volte più chiari, formano un’ossatura complessa e intrigante. Caratteristiche che gli hanno valso il premio Europa Cinemas Label come miglior film nella sezione Giornate degli Autori a Venezia 66. Ma forse, la motivazione di tale premio la spiegano meglio i giudici di questa sezione, ovvero: "Il film osserva con sguardo tragicomico l’avidità, la manipolazione e il potere all’interno di una famiglia". Proprio così.

Emma Blank è una donna molto ricca che tiene tutti i suoi famigliari a bacchetta. Si fa preparare da mangiare; costringe uno di loro a comportarsi come fosse un cane; fa in modo che annuiscano a ogni suo capriccio. Il come? Semplice, fargli credere che ha una eredità cospicua di cui un giorno, loro potranno beneficiare. Ma quando scoprono che non è così, la situazione si capovolge...

Dal carattere fortemente autoritario, "The last days of Emma Blank" rappresenta uno di quei rari casi in cui lo spettatore rimane coinvolto fin dalle prime battute. Rimane incastrato negli atteggiamenti bizzarri dei protagonisti. Nelle loro idiosincrasie. Nei dialoghi pungenti e “cattivi”. Gli attori, poi, sono bravissimi a mettere in atto una commedia dall’ossatura fortemente teatrale. Si ingannano, si scrutano, si amano fino ad ammazzarsi. Pazzesco.Difficile, alla fine dello spettacolo, non provare pietà per la povera Emma, caduta sotto la scure della sua stessa cattiveria.

Aggiungiamo alla motivazione della giuria per il premio che in "The last days of Emma Blank" il regista riesce a rappresentare chiaramente, e in modo universale, i sentimenti umani. Niente male.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/thelastdaysofemmablank.htm

Celda 211

Anno: 2009
Regia: Daniel Monzon

Il cinema spagnolo sta vivendo una stagione incredibilmente buona.Presentato nella sezione più interessante della sessantaseiesima mostra del cinema di Venezia, quella dedicata alle Giornate degli autori, Celda 211 è a sorpresa una delle rivelazioni di questo festival.

Una guardia carceraria, al primo giorno di lavoro, rimane tramortita a causa di un piccolo incidente: del calcinaccio è ceduto dal tetto colpendolo in testa. Quando si risveglia, scopre di essere caduto in un vero e proprio incubo: l'intero carcere è stato occupato dai prigionieri. Rimanere vivo in quel covo di criminali non sarà facile...

Tesissimo dramma carcerario come pochi se ne sono visti nella storia del Cinema. Il regista e sceneggiatore Daniel Monzon fa centro confezionando una pellicola emozionante e struggente. Epica e spietata. Grazie a una sceneggiatura che non ha punti deboli, in cui i personaggi si vanno delineando in modo sempre più completo e profondo.In questo balletto di intenti tra i vari caratteri, le guardie e i prigionieri si scontrano a muso duro fino a scambiarsi i ruoli.Scompare la distinzione tra buoni e cattivi, quindi, bene e male, e il film diventa un bellissimo affresco di umanità. Ma non solo: Celda 211 dimostra abilità anche nel trattare tematiche politiche di spessore, come la libertà di stampa e le situazioni nelle carceri.Ottimi gli interpreti, inoltre, con Luis Tosar alla sua prima volta sul grande schermo che lascia basiti; un cattivo, Alberto Ammann, fisicamente molto simile a Colin Farrell; e un pantheon di attori e attrici raramente così affiatati e convincenti. Un film completo.

Bellissimo il finale che lascia senza parole. E come per Rec, aspettiamoci presto un remake americano.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/celda211.htm

Una soluzione razionale

Anno: 2009
Regia: Jorgen Bergmark
Distribuzione: Lucky Red

Il fallimento di un’utopia. E’ soprattutto questo Una soluzione razionale, la commedia dolce amara diretta da Jorgen Bergmark con piglio sospirato.

Il rapporto di coppia di Karin e Erland entra in crisi quando la donna comincia a provare una forte passione per il miglior amico del marito. L’altro, dal canto suo, quando si rende conto che la relazione clandestina sta diventando ingestibile, propone ai rispettivi consorti di vivere tutti insieme sotto lo stesso tetto...

L’equilibrio narrativo che aleggia in "Una soluzione razionale" potrebbe fare scuola. Bergmark, infatti, potrebbe in qualunque momento della pellicola virare la trama e la regia verso lidi più facili e furbi. Potrebbe far innamorare tra loro anche gli altri due consorti; potrebbe portare il film dalle parti del comico; oppure al contrario potrebbe renderlo drammatico in modo straziante. I motivi narrativi ci sarebbero. Le possibilità registiche anche. E invece Bergmark sceglie la strada più difficile, ma anche la più intelligente. Quella di raccontare la storia di un sogno: far rimanere un rapporto di coppia intatto, malgrado il tradimento."Impossibile" è la risposta del regista, malgrado in questo caso si tenti la strada razionale e "matura" della convivenza a quattro.

Il regista e interprete della pellicola racconta le illusioni, le situazioni anche grottesche, le speranze di due coppie che non trovano il coraggio di guardarsi dentro per fare davvero la scelta giusta. Ci descrive i rapporti puntando in alto a echi bergmaniani, e finisce per rimanere in equilibrio, e con eleganza, tra dramma e commedia. E dell’Amore alla fine rimane solo il retrogusto amaro.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/unasoluzionerazionale.htm

Videocracy - Basta apparire

Anno: 2009
Regia: Erik Gandini
Distribuzione: Fandango

Documentario tutto di casa nostra questo Videocracy che ci porta nel dietro le quinte del mondo dello Star System nostrano. Partendo da un giovane di provincia che aspira a diventare uno strano mix tra Ricky Martin e Van Damme, nuova forma di showman di successo, si passa attraverso Lele Mora e Fabrizio Corona che spiegano le motivazioni dietro il loro lavoro...

Ritmo incalzante per un’inchiesta che odora molto di denuncia politica, ma che finisce miseramente per somigliare a un enorme fumettone.

Nient'altro.

Sì, nient'altro. Il film di Erik Gandini è critico nei confronti della nostra televisione e del governo Berlusconi, ma solo in superficie. Tutto Videocracy è un colpo sparato a salve. Inizia con un'inquietante accusa, quella di dichiarare la televisione italiana specchio dell'anima del Premier Silvio Berlusconi, ma lì si ferma. Guardiamo l'orologio: sono passati dieci minuti scarsi. Il resto? Una lunga serie di dichiarazioni che il "pubblico" italiano conosce già benissimo. Il mondo delle veline, letterine e schedine; le selezioni per aspirare a uno sposo calciatore; le feste del Billionaire fatte di personaggi coloriti; i sorrisi dei tronisti... Toh! Lorenzo del Grande Fratello 2. Toh! La nuova meteorina... Le donzelle saranno contente di vedere i gioielli di casa Corona. I maschietti un po' meno... ma poco male. Il film di Gandini diventa quindi lui stesso parte del sistema Videocracy. Si crea un corto circuito motivazionale in cui il regista si perde, senza trovare vero mordente.

Del resto, viste le accuse e i personaggi "importanti" che prende in analisi Videocracy viene da chiedersi: se fosse stato un film-documentario davvero scomodo, sarebbe stato proiettato? Ma proprio Gandini dà un colpo do coda prima dei titoli: l'Italia è al settantesimo posto (o giù di lì) nella classifica della libertà di stampa dei Paesi mondiali. Sempre più inquietante.

Diego Altobelli (09/2009)

Tetsuo - The Bullet Man

Anno: 2009
Regia: Shinya Tsukamoto

Torna il regista Shinya Tsukamoto con il terzo capitolo delle avventure dell'uomo di ferro: in giapponese Testuo, qui rinominato col sottotitolo "L'uomo del proiettile".

Una giovane coppia viene sconvolta dall'omicidio del loro piccolo figlio, ucciso da una organizzazione criminale. In realtà, suddetta organizzazione voleva risvegliare il potere segreto del capofamiglia, capace di trasformarsi in un uomo di ferro rabbioso e privo di controllo. Inizia un viaggio introspettivo per riconquistare la propria umanità...

Gira un po' a vuoto questo terzo capitolo della saga Testuo. Sarà l'assenza di una vera trama (lui figlio di un androide che cerca di controllare il proprio potere), di una sceneggiatura adeguata (il più del tempo si passa a urlare), di protagonisti capaci di catalizzare l'attenzione dello spettatore (completamente anonimi gli interpreti), ma questo Testuo the Bullet man proprio non va a segno.

La regia di Tsukamoto, d'altro canto, qui pare essere al suo meglio. Le immagini, più simili a certe video installazioni dell'arte contemporanea che a fotogrammi cinematografici, riescono a trasporatare il pubblico in un delirio urbano cyber punk decisamente suggestivo. I palazzi si fondono con i personaggi, le strade diventano le loro gambe, i visi si specchiano nel cemento, il sangue diventa petrolio. Visivamente Testuo The Bullet man è l'apoteosi dell'urbanizzazione al cinema.

In questo delirio visivo i buoni sentimenti e l'amore rimangono, per Tsukamoto, l'unica ancora di salvezza. L'unico modo per non perdersi. Bellissimi gli intenti, allora, peccato che il regista non sia riuscito a sostenerli con recitazione e sceneggiatura all'altezza della situazione.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/tetsuothebulletman.htm

Women Without Men

Anno: 2009
Regia: Shirin Neshat

Woman Without Men è un film intenso e dal carattere fortemente rivoluzionario firmato dalla regista Shirin Neshat. L’autrice, alla prima esperienza dietro la macchina da presa, è innanzitutto una video artista le cui installazioni sono riconosciute in tutto il Mondo. E il risultato di questa esperienza sul grande schermo si vede. Le immagini, nitide e piene di particolari, omaggiano l’arte pittorica, richiama antiche iconografie, diventa simbolica. Lo spettatore si ritrova davanti quindi un vero e proprio affresco fatto di tanta luce e di tante ombre. Il tutto, inserito nel contesto storico del 1953, anno in cui il golpe ordito da Stati Uniti e Gran Bretagna riuscì a deporre il governo democratico di Mossadegh per restaurare il potere dello Scià.

Le storie di tre donne, in quell’anno fatidico, si intrecciano. C’è Fakhri, moglie insoddisfatta che riesce a scappare e a comprare una tenuta in cui rifugiarsi. Poi Munis, interessata alle vicende politiche. E infine Faezeh, incastrata dal rapporto col fratello. Le tre donne si conosceranno e finiranno per imparare l’amarezza della vita...

Film storico di spessore, diviso tra sogno (che vive nelle immagini della regista) e realtà (descritta attraverso l’episodio di Mossadegh). Attraverso le musiche di Ryuichi Sakamoto viviamo i conflitti interiori e le ansie scatenate da una voglia di libertà che nessun governo può mettere a tacere. Incredibili, poi, i momenti in cui assistiamo ai soprusi di una società maschilista e chiusa.

Ottusa e cieca. Dannatamente rinchiusa in termini culturali ristretti. Le donne, in questo universo chiuso, devono nascondersi, sono costrette ad abbassare lo sguardo, sono impossibilitate dal muoversi. Le uniche ancore di salvezza sono la cultura, tenuta segreta come un peccato, e la propria immaginazione. Un film che fa riflettere.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/womenwithoutmen.htm

Capitalism: A love story

Anno: 2009
Regia: Michael Moore
Distribuzione: Mikado

Come suggerisce il titolo, in effetti “Capitalism: A love story”, nuovo documentario d’inchiesta firmato Michael Moore, è esattamente una storia d’amore. E per raccontarcela Moore, noto per Bowling a Colombine, Sicko e Fahrenheit 9/11, parte da molto lontano. Ovvero dall’antica Roma.

E’ lì, in effetti, che l’amore per il denaro e la corruzione è scoppiato. Si è acceso divenendo un connubio esplosivo e potenzialmente distruttivo. Proprio come certe storie d’amore. Questo sentimento, ma è meglio definirlo “rapporto”, si è poi poco a poco sviluppato dando vita a quel concentrato di “pari opportunità” e “libero mercato” che i potenti chiamano “Capitalismo”: secondo Moore il più grande male nella Storia dell’umanità.

Il più grande. Senza alcun dubbio.

Al Capitalismo si deve la crisi economica che stiamo vivendo. Si deve la perdita dell’impiego per milioni di persone nel mondo. Si deve la perdita delle case, degli alloggi. Si devono gli scioperi, le occupazioni e le migliaia di persone incapaci di costruirsi un futuro. Si deve la formazione d’istituti, inizialmente concepiti per essere pubblici, privati come carceri e ospedali. Si deve la reclusione di ragazzi minorenni che non (non) hanno commesso crimini. Famiglie senza possibilità di cure mediche. Altre senza possibilità di difendersi in ambito legale. Le amministrazioni corrotte. Le guerre finanziate privatamente. Si deve l’uragano Katrina. Si deve la fame nel mondo. Si deve tutto. Tutto.

Ok, forse Moore ha un po’ esagerato. Capitalism: A love story è con ogni probabilità uno dei migliori lavori fatti dal regista. Certamente uno dei più appassionati. Moore, riesce, infatti, a toccare le corde giuste nello spettatore e a farlo sentire parte del problema. Lo fa tornare indietro con la memoria al suo primo lavoro da regista, quel Roger and me sulla General Motors, e lo coinvolge a livello emotivo. Tutto questo però, va detto a onor del vero, grazie a un tema che unisce piuttosto facilmente tutte le etnie, le religioni e i ceti sociali: la povertà dei molti contro la ricchezza dei pochi. Un tema molto complesso che si assume il compito assai ardito di scavare nelle ragioni più profonde della crisi economica mondiale.

Si fanno collegamenti tra l’amministrazione Bush e il sistema bancario. Si fanno nomi e cognomi delle persone che hanno ingannato l’amministrazione pubblica. Si innalza Obama come paladino della gente... Si dice molto, insomma. E come sempre alla fine della proiezione rimane la sensazione che non tutto quello che si è detto è proprio inerente all’argomento trattato. Moore questa volta lo nasconde meglio di altre raccontandoci in realtà non una, ma due storie d’amore: quella dell’uomo per il denaro e quella dell’uomo per la verità. Sembra un duello. Infatti, finisce in parità.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/capitalismalovestory.htm

Between two Worlds

Anno: 2009
Regia: Vimukyhi Jayasundara

Un po’ difficile "Between Two Worlds" diretto da Vimukyhi Jayasundara. E per varie ragioni. Innanzitutto il ritmo, non proprio esplosivo. Poi la sceneggiatura, troppo spesso criptica. Infine la regia, particolarmente statica. Sarà, ma quando nei Festival arrivano in concorso film così radicalmente lontani dalla nostra cultura, rimane sempre molto difficile giudicarli realmente con cognizione di causa.

La pellicola cingalese in questione narra di un ragazzo che si ritrova a vagare in una zona montana tra la Cina e l’India. Un limbo a metà tra due mondi molto diversi eppure confinanti, come suggerisce il titolo. L’uomo cercherà di sopravvivere e di capire il senso ultimo della propria esistenza...

I toni usati da Jayasundara rasentano il dramma, ma senza mai approfondirne i caratteri. Presenta in sceneggiatura una serie di episodi che formano il film senza collegarli tra loro. O meglio, senza fornire allo spettatore occidentale gli strumenti per farlo. Il risultato è un lungo e lento tragitto sospeso tra sogno e realtà.Echi di guerre e di disagi. Amori sfuggenti. Morti improvvise. In questo inquietante scenario rimane solo la forza dell’idea. Quella di raccontare cosa avviene nel mezzo di due mondi culturalmente opposti, ma che intendono sopraffarsi l’uno sull’altra. Quello che ci si trova di fronte non è altro che la fine di entrambi.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/betweentwoworlds.htm

Lourdes

Anno: 2009
Regia: Jessica Hausner

La 66a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è rimasta incantata dall’austriaco Lourdes, firmato dalla regista Jessica Hausner. Malgrado il ritardo di circa un’ora con cui è iniziata la proiezione, che certo non ha messo la critica in sala nel giusto stato d’animo, Lourdes è stato capace di aggiudicarsi il primo, lungo, applauso della 66° Mostra del Cinema di Venezia. Dopo il silenzio impacciato di The Road e i commenti di circostanza per Herzog e la sua versione del Il cattivo tenente, Lourdes ha già ottenuto un risultato encomiabile: stupire il pubblico.

La regia dell’austriaca Hausner riesce con efficacia, infatti, ad alternare registri ironici, o persino grotteschi, ad altri più drammatici, attraverso la storia di una giovane donna in pellegrinaggio a Lourdes nella speranza che un miracolo le faccia tornare l’utilizzo completo di braccia e gambe. Tra gite alle grotte, preghiere, e domande a sfondo mistico lasciate senza risposta, la giovane cercherà, nel suo piccolo, un momento di felicità…

La cosa che colpisce di Lourdes è la capacità di mantenere intatto il mistero mistico della fede, pur indagando a fondo nel problema e con toni, a tratti, persino brutali. Terribile, ad esempio, il momento in cui due preti raccontano la barzelletta dello Spirito Santo, Maria e Gesù che devono decidere dove andare in vacanza. Alla fine lo Spirito Santo suggerisce proprio Lourdes e Maria risponde: “Magnifico, non ci sono mai stata!”. A dir poco crudele... Però, malgrado queste cadute di stile poco eleganti, il film della Hausner appassiona. Riesce a far riflettere lo spettatore, anche il più scettico. A farlo sentire parte del problema fede. Del problema speranza. Del problema vita.
La Hausner non ci risponde a riguardo. Non ci dice con certezza se l'esistenza dei malati in pellegrinaggio, degli oppressi, dei malfermi si possa chiamare ancora vita. Ma anche loro, sembra suggerirci il finale, hanno diritto a un momento di felicità. Fosse pure effimera.

Bravissima l'interprete femminile, Sylvie Testud: intensa, coinvolgente e incredibilmente "umana".

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-Lourdes_La_felicita_e_un_momento-2972.html

La battaglia dei Tre Regni

Anno: 2009
Regia: John Woo
Distribuzione: Eagle Pictures

John Woo torna in patria adattando per il grande schermo Il romanzo dei Tre Regni (scritto da Guanzhong Luo più di seicento anni fa), una delle pietre miliari della letteratura cinese che ha ispirato film, sceneggiati, fumetti e una dozzina di videogame. Dopo essere stato regista di blockbuster come Face Off e Mission: Impossible 2, entrambi girati a Hollywood, per La battaglia dei Tre Regni Woo non bada certo a spese disponendo di un budget complessivo di oltre ottanta milioni di dollari e un cast ricco dei volti più noti dello star system orientale. Takeshi Kaneshiro, Chen Chang, Wei Zao, sono infatti solo alcuni dei nomi che vanno a incarnare i personaggi protagonisti dello scontro che cambiò per sempre la storia della Cina.

III° secolo circa d.C. L’impero Han, dopo anni di corruzione e soprusi sul popolo, sta cedendo sotto le pressioni delle rivolte sempre più numerose. Ben presto, la Cina si ritrova divisa in tre regni principali. A nord, i successori illegittimi degli Han comandati da Cao Cao, a sud gli imperi Wu e Xu comandati da Sun Quan e Liu Bei, zio dello stesso Cao Cao. La guerra tra i tre regni, dopo numerosi intrighi e battaglie, porterà al decisivo scontro ai piedi della Scogliera Rossa (Red Cliff)…

Complessa vicenda storica girata nitidamente, ma senza rinunciare alla mano autoriale che da sempre ha caratterizzato la regia di John Woo. Con La battaglia dei Tre Regni il regista di Windtalkers riesce con efficacia a miscelare elementi narrativi ricorrenti nella sua filmografia (l’uso del rallenty; il confronto di sguardi alla Sergio Leone; l’attenzione ai dettagli) con il genere Wuxia. Il risultato è epocale.

La battaglia dei Tre Regni cattura il pubblico e lo inebria di personaggi eroici, intrighi di corte, strategie militari calcolate al millimetro, coreografie eccellenti (ad opera di Corey Yuen), dinamismo registico (esemplare la scena della goccia d’acqua che va a indicare il cambio del vento) e una trama sempre avvincente. Unico appunto: la versione occidentale del film è ridotta (rimontata dallo stesso John Woo) a 148 minuti. Mancano quasi cento minuti che avrebbero reso La battaglia dei Tre Regni un’esperienza totale. Meno male che esiste l’home video dove poterli recuperare. Un film eccellente. Barocco. Epico. Servirà da esempio per coloro che verranno.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-La_battaglia_dei_tre_regni_Un_ritorno_in_patria_con_tutti_gli_onori-3474.html

Viola di mare

Anno: 2009
Regia: Donatella Maiorca
Distribuzione: Medusa

Sicilia, seconda metà 1800. Angela e Sara crescono insieme sull’isola di Favignana. Divenute ragazze, le due si scoprono innamorate l’una dell’altra, ma far vivere il loro amore nella ristretta mentalità dell’isola non è facile. La soluzione arriva imprevedibile e drastica: convincere l’intera comunità che Angela in realtà è Angelo…

La regista di Viol@ (1998) Donatella Maiorca torna dietro la cinepresa per dirigere l’adattamento cinematografico del romanzo Una minchia di re, scritto da Giacomo Pilati. Il risultato è una vera e propria epopea che cammina sul confine della telenovela. Infatti alle due protagoniste (le bravissime Valeria Solarino e Isabella Ragonese) succede davvero di tutto, sfiorando a volte persino il grottesco. Dai primi baci alla clausura in un pozzo, dal tentato stupro a… Senza dire molto altro della trama, colpisce in sceneggiatura la quantità di situazioni che, in uno spazio ristretto come quello chiuso della realtà siciliana del 1800, accadono sullo schermo. Purtroppo però, allo stesso tempo è innegabile non constatare un’eccessiva audacia nella seconda parte del film. Troppe cose accadono, e si ha la sensazione che non sia dato a tutte il dovuto spazio narrativo. Il giusto respiro.

Davvero ottimo il cast, invece, con la felina Ragonese che ai nostri occhi appare sempre convincente nelle sue interpretazioni: capacità non trascurabile al giorno d’oggi. Bravissima anche la protagonista Valeria Solarino, che riesce a mutare sia fisicamente che caratterialmente il personaggio di Angela, descrivendo un incredibile racconto di maturità. All’altezza della situazione anche il resto del cast, tra cui spiccano Ennio Fantastichini (bella la costruzione del suo personaggio) e Maria Grazia Cucinotta (qui in veste anche di produttrice).

Un film riuscito a metà, insomma. In Viola di mare, allo stesso numero di buone cose (ad esempio regia e recitazione) si affianca il medesimo numero di cose meno convincenti (come sceneggiatura e montaggio).

Da segnalare, infine, la colonna sonora ad opera della magnifica Gianna Nannini che ci regala delle musiche rock molto belle, anche se non sempre in sintonia con il film.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Viola_di_mare_Il_sesso_e_un_punto_di_vista-3391.html

Barbarossa

Anno: 2009
Regia: Renzo Martinelli
Distribuzione: 01 Distribuzione

Giunge nelle sale cinematografiche il colossal made in Italy Barbarossa per la regia di Renzo Martinelli, già autore de La piazza delle cinque lune e Il mercante di pietre.

Italia, anno del Signore 1158. Il giovane Alberto da Giussano salva la vita all’imperatore Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa. Quest’ultimo, in riconoscenza, gli regala un pugnale e così facendo i destini dei due uomini si legano indissolubilmente. Infatti, quando Federico Barbarossa invaderà il nord Italia piegando Milano, spetterà a Alberto riunire le forze delle province e scacciare l’invasore…

A metà strada tra cinema e politica incontriamo questo Barbarossa, sforzo produttivo che vede in Renzo Martinelli prima (con l’omonima casa di produzione) e Rai Cinema poi i loro più significativi rappresentanti. E in effetti, vedendo l’ultima fatica di Martinelli appare evidente che una volta tanto ci troviamo davanti un film che (quantomeno) prova a volare alto, confezionando un prodotto pomposo grazie anche a un cast internazionale. Inoltre, per la prima volta nel bel Paese viene utilizzata la tecnica computerizzata denominata “crowd replication” che serve a moltiplicare le comparse e rendere le scene di massa più convincenti. Il risultato di questa nuova applicazione sta tutta nella battaglia finale, e nella carrellata dall’alto concepita al suo servigio.
Purtroppo però, ancora una volta (e come nei precedenti film di Martinelli) al fianco di una regia senza guizzi (se non alcune inquadrature di taglio più che altro “pubblicitario”) troviamo una sceneggiatura piatta e un ritmo soporifero, troppo, che finisce per annoiare e sacrificare l’intero sforzo produttivo. Ed è un peccato (idee politiche a parte) perché avrebbe fatto piacere a tutti poter gioire di un Braveheart tutto italiano. Invece no. A vedere Barbarossa ci si rende conto presto che le scene sembrano incollate l’una all’altra mancando totalmente di fluidità. I personaggi appaiono fondamentalmente impalpabili, deboli e un po’ erratici. La trama, infine, pur riprendendo abbastanza bene i fatti storici, perde attrito lasciandosi andare in “visioni” e “profezie” (come quelle che ha il personaggio di Kasia Smutniak) che la fanno somigliare a una sorta di Giovanna d’Arco di “bessoniana” memoria, ma al sapore di zafferano.

Sufficiente invece il fronte interpretativo. Tutto sommato stiamo parlando di Rutger Hauer e F. Murray Abraham che non sono affatto due sprovveduti. Brava anche la Smutniak. Più debole (nemmeno a dirlo) l’Alberto da Giussano interpretato da Raz Degan, ma forse solo a causa del personaggio che appare sviluppato male e troppo in fretta.

Ancora una volta Martinelli si avvicina al bersaglio, ma non lo colpisce. Barbarossa è un film didascalico e senza presa. Senza molto altro da dire, purtroppo, a suo riguardo. E pur credendo nella buona fede del messaggio universale di libertà che esso vuole lanciare, non si può nascondere la sensazione di aver avuto a che fare con un film vagamente propagandistico. Ovvio, così non è, ma a pensarci vengono comunque i brividi.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Barbarossa_Un_film_duro_da_digerire-3329.html

Fame - Saranno famosi

Anno: 2009
Regia: Kevin Tancharoen
Distribuzione: Lucky Red

Alla High School of Music & Art di New York è iniziato un nuovo anno. Le matricole si accalcano all’entrata per essere ammesse dopo estenuanti provini. A quelle che ce la fanno aspettano quattro anni di sudore, esercizi, studio e fatica. Ma il traguardo porta il nome di fama. Non tutti, naturalmente, la raggiungeranno…

Per la cronaca. Dalla vera High School of Music & Art di New York (fondata nel 1936 dall’allora sindaco di New York Fiorello H. La Guardia) sono usciti personaggi come Ellen Barkin, Al Pacino, Jennifer Aniston e Liza Minnelli. Sempre per la cronaca. Dal film culto di Alan Parker che ha ispirato la serie TV (e ora questo film omonimo) sono passati solo 29 anni e, considerando che rivedendolo oggi farebbe ancora la parte del re nel panorama di titoli dello stesso genere (Save the last dance; Step Up; Shall we Dance; High School Music; tanto per citarne alcuni), non si capisce il motivo di tirare fuori questo remake. Davvero. È imbarazzante e, in un certo senso, anche pericoloso!

Lasciatecelo dire una volta di più. Con tutti questi remake e rivisitazioni, reboot e “riget” (quest’ultimo l’ho inventato io) ci si chiede cosa rimarrà alle generazioni future dei film originali. Quelli che avevano un’anima (che in Cinema prende il nome curioso di “regia”), che avevano una sceneggiatura (detta anche “ossatura”), e una recitazione convincente (il suo cuore). Nel caso di Fame, poi, non rimarrà davvero niente del personaggio di Leroy e nulla della grande Coco, ad esempio. Ed è un peccato. Perché la serie è ancora oggi godibile e di tutto rispetto. L’istinto quindi sarebbe quello di dire: “Evitate questo remake imbarazzante sotto ogni punto di vista e se proprio dovete, recuperatevi la serie e il film originali”. Stop.
Ma siamo persone per bene, e il bon ton ci impone una critica che tenti di essere il più possibile argomentata. Rimbocchiamoci le maniche e partiamo.

Il regista Kevin Tancharoen sbaglia tutto. Dalla regia, che sceglie di utilizzare la telecamera a mano, salvo poi cambiare idea strada facendo e adeguarsi a uno stile più televisivo; fino alle scene di ballo, punto di forza del film, le quali rimangono strutturate male e fortemente confuse. Oltretutto, la coreografia e il lavoro fatto sui costumi non alleggerisce la visione, rendendo lo spettacolo molto… ruvido. Passiamo alla sceneggiatura, allora, che tenta varie strade senza criterio, presentandoci i quattro anni di scuola dei protagonisti senza dare al trascorrere del tempo la giusta consecutio narrativa. In pratica, se volessimo vedere prima il terzo anno, poi la parte relativa al primo, poi il quarto e infine il secondo, nell’economia della comprensione del testo, non cambierebbe nulla. Incredibile, ma vero. I personaggi non crescono né regrediscono. La scuola è un limbo in cui i caratteri non vengono espressi. Pazzesco, considerando di cosa parla il film!Nella recitazione, infine, prendono tutti “4”. Sia studenti che professori. I primi perché nessuno trova una propria identità artistica, risultando tutt’al più la macchietta di personaggi presi da altre pellicole. I secondi perché risultano tedianti e fortemente improbabili. Con l’unica eccezione della grande Megan Mullaly, la Karen Walker della serie Will & Grace, che riesce a raggiungere (quantomeno) la sufficienza. Uno spettacolo generale abbastanza penoso, comunque.

Ma ci preme di dire che a monte di tutte queste considerazioni accademiche quello che davvero sfugge al film di Tancharoen è il senso. Una morale. Un motivo che lo giustifichi sia dal punto di vista tecnico, sia (soprattutto) dal punto di vista del messaggio che manda. Molte le scelte “ambigue” operate in fase di scrittura. Professori che aprioristicamente dicono ai ragazzi che non diverranno nessuno rivelando episodi drammatici della loro vita che li ha portati a essere dei “meri” insegnanti. Oppure attori che ce l’hanno fatta, ma che sfruttano il proprio successo per portarsi a letto le aspiranti attrici. O ancora, genitori che per nulla credono nel sogno dei propri figli. E c’è persino un tentato suicidio. A ben vedere, in Fame di Kevin Tancharoen non ce la fa proprio nessuno. Né i professori, segregati, come in una vecchia battuta di Woody Allen, in un ruolo che non avrebbero voluto rivestire. Né gli studenti, che vedranno tutti i loro sogni infranti. E a pensarci vengono i brividi. Insomma, è un messaggio davvero terribile da mandare!

Per la cronaca. Nella vita qualcuno ce la fa a "sfondare". Sempre per la cronaca. Potreste essere proprio voi. E, ci crediate o no, il vero talento non sta nel modo in cui vi esprimete, ma in quello che volete dire. Lascio a chi legge ogni altra considerazione in merito.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Fame___Saranno_famosi_Ventinove_anni_di_studio_e_non_sono_serviti-3302.html

Un amore all'improvviso

Anno: 2009
Regia: Robert Schwentke
Distribuzione: 01 Distribuzione

Basato sul bestseller The time traveller's wife della scrittrice Audrey Niffenegger, Un amore all’improvviso sembra decretare sul grande schermo, dopo Il curioso caso di Benjamin Button, il nuovo trend a Hollywood di associare viaggi temporali alle storie sentimentali. Niente paura però, questa volta non abbiamo ringiovanimenti precoci o anzianità incontrollate, ma “semplicemente” un uomo con la facoltà di viaggiare nel tempo che si lega sentimentalmente a una ragazza di nome Clare.

Clare incontra Henry quando ha sei anni. Lui invece è già adulto e le rivela di essere un viaggiatore nel tempo. La bambina non gli crede, ma quando il giorno dopo Henry ricompare invecchiato di qualche anno ne rimane affascinata. Tra i due comincia così una improbabile quanto duratura storia d’amore…

La particolarità del romanzo della Niffenegger stava tutta nella impalpabilità della trama, che lasciava senza soluzione i vari problemi legati ai viaggi temporali. Nell’ottica di un romanzo, tale soluzione assumeva i connotati della metafora, del significato. I viaggi nel tempo di Henry diventavano metafora dell’incompatibilità dell’uomo e della donna, ma anche della volontà di rimanere l’uno affianco all’altra malgrado tutto. Molto romantica, la lettura in tal senso si faceva suggestiva, catturando il lettore.

Purtroppo al cinema le cose funzionano diversamente. Due bravi attori come Eric Bana e Rachel McAdams, infatti, non bastano a rendere coinvolgente un soggetto che gira a vuoto (similarmente al protagonista che se ne va a spasso nel tempo). Inoltre, appare abbastanza evidente a una prima analisi della pellicola che vi è un grosso equivoco di fondo. Equivoco legato alla sceneggiatura firmata da Bruce Joel Rubin, autore del paranormale e romantico Ghost. Stiamo parlando del "punto di vista". Nel film di Robert Schwentke (esordiente nel 2005 con Fightplan – Mistero in volo) il film ha lo sguardo di Henry, protagonista assoluto col suo problema genetico che lo fa balzare nel tempo (senza chiarire ulteriormente la questione). Quando invece sarebbe stato, forse, più logico prendere il punto di vista di Clare, che fa di tutto per vivere una vita normale malgrado il problema del compagno. E che, per questa ragione, diventa il personaggio di più facile immedesimazione. Ma Schwentke preferisce giocare col paradosso del tempo. Henry viaggia avanti e indietro; incontra sua madre scomparsa anni prima; cerca chiarimenti col padre alcolista; incontra se stesso; fa a cazzotti con dei teppisti; si innamora di Clare… In questo via vai senza soluzione la bussola si perde facilmente e la direzione si fa presto ignota e frustrante. Infatti, il film perde anche il mordente; e le molte strade tentate per riaccendere l’attenzione (come quella di far incontrare a Henry un altro se stesso in fin di vita) finiscono per lasciare il posto alla via più furba: la non spiegazione.

Incompiuto, Un amore all’improvviso fa rabbia. Funziona nella prima parte. Perde il controllo nella seconda, va fuori strada e si schianta lungo un tornante chiamato “tempo”. E sulla questione “tempo”, proprio Henry finisce per darci l’insegnamento più importante: che per affrontarlo non bisogna avere solo coraggio, ma anche tanta tecnica.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Un_amore_all_improvviso_Il_passare_del_tempo_e_una_questione_di_tecnica-3250.html

Trilli e il tesoro perduto

Anno: 2009
Regia: Klay Hall
Distribuzione: Walt Disney

Torna Trilli, la fatina buona e imbranata affezionata a Peter Pan. E come nel primo film d’animazione a lei dedicato, anche in questo caso il nome "Trilli" suona più come un pretesto che come quello della protagonista.

Alla Radura Incantata sono in trepidante attesa per l’arrivo dell’Autunno. Per garantire il buon proseguimento delle stagioni, a Trilli viene affidato il compito di creare uno scettro magico che verrà usato durante l’annuale cerimonia di transizione. Purtroppo, a causa di un amico troppo volenteroso, lo scettro va in pezzi, e con esso il magico gioiello che sorreggeva! A Trilli non rimane altro da fare che credere a un’antica leggenda e mettersi in viaggio oltre l’Isola che non c’è…

Manuale del buon redattore: capitolo 1- Cosa NON dire a un pubblico giovane. È evidente che il personaggio di Trilli non è altro che una operazione commerciale volta a sfruttare il trend delle fatine che, un po’ come nel caso dei dinosauri, attirano un nutrito numero di bambini e bambine. E il regista Klay Hall (preferito al precedente Bradley Raymond) si limita a fare… “ciò per cui viene pagato”. Intrattenere quella specifica fascia di pubblico. Ecco così un alternarsi continuo di personaggi. Una passerella (lunga ottantuno minuti) di fatine e “fatini” in cui, siamo certi, troverete quello/a che più vi somiglia. A questo si aggiunge un via vai di scoiattoli, lucciole (grandissimo Brillo, vince lui alla fine), conigli saltellanti e molti altri animali tenerissimi. Le emozioni? Tutte nel finale, costruito per somigliare a quelle sfilate di colori e costumi che si vedono ogni giorno a Eurodisney, con tanto di fuochi d’artificio e l'aggiunta di una buona morale.

Manuale del buon redattore: capitolo finale - Cosa dire a un pubblico giovane. La grafica è molto curata, ma al giorno d’oggi questo è un cliché. I colori sono scintillanti. Le musiche allegre e non invasive. Lo zucchero e la simpatia scorrono a fiumi. Tutto è perfetto. Tutto è giocoso. Il mondo in cui vivete, anche. Quindi, non preoccupatevi.

Ora "seriamente". Se volete fare un regalo a un figlio, a un nipote o a un fratellino, portatelo a vedere Trilli e il tesoro perduto. Loro, di certo, apprezzeranno. Noi invece ci ridesteremo alla fine della proiezione dicendo con aria vaga: «Ti è piaciuto? Hai visto che bello?». E va bene così.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Trilli_e_il_tesoro_perduto_Il_ritorno_della_Marilyn_in_miniatura-3237.html

District 9

Anno: 2009
Regia: Neill Blomkamp
Distribuzione: Sony Pictures

Terra, 1980. In un passato alternativo, un’astronave aliena si è fermata sopra Johannesburg, in Sud Africa. Quando le forze di difesa terrestri sono salite a bordo per capire chi fossero i visitatori, hanno trovato qualche migliaio di esseri denutriti e incapaci di sostenersi. Ben presto si è deciso di "aiutare" gli alieni segregandoli in una baraccopoli denominata Distretto 9. Vent’anni dopo gli alieni (nel frattempo soprannominati “gamberoni” per la somiglianza con i crostacei marini) sono ancora lì, nel fantomatico Distretto 9. Quando una squadra scelta viene inviata per spostare i profughi in un nuovo centro di accoglienza (una tendopoli), il capo della spedizione contrae un virus che lo inizia a una mutazione genetica. Sarà il caos…

Dispiace sempre quando si va al cinema con grandi aspettative e si esce delusi come in questo caso. District 9, prodotto e presentato niente meno che da Peter Jackson non è altro che un’occasione mancata. Un film che poteva aspirare a essere nuovo punto di riferimento del genere, e che invece finisce per delirare in uno spara e fuggi degno di un B-movie alla Steven Seagal.

Un ibrido. È questo quello a cui si pensa quando finisce la visione di District 9. Infatti, la regia di Neil Blomkamp, alla sua prima esperienza in un lungometraggio, fonde varie… cose. E non sempre in modo felice o efficace. Dalla pubblicità, ai videogiochi, al cinema di genere. Non è un caso, forse, che proprio Blomkamp si sia fatto conoscere nell’ambiente grazie alla pubblicità di Halo (stranoto videogame per console). È così che quello che sembra inizialmente come un suggestivo racconto girato con lo stile del documentario (sì, pure il documentario) di un fatto mai avvenuto, ma pieno di valenze simboliche razziali (la chiusura in una baraccopoli di un gruppo di immigrati), si trasforma prima in un dramma sentimentale e poi in un shoot’em up - come viene detto in gergo - con tanto di super tuta tecnologica che spara raggi a destra e a sinistra spargendo un mare di sangue sullo schermo.

Un bluff. Questa è invece la seconda cosa che si pensa tornando a casa. Un film che tradisce le intenzioni iniziali a favore dell'azione spicciola e, una volta di più, fondamentalmente inutile. Oltretutto, se pensiamo che dal punto di vista recitativo abbiamo a che fare con uno dei protagonisti più fuori parte della storia del Cinema, il giudizio è presto dato.

Peccato, insomma, ma anche no. E ora: rimettete Incontri ravvicinati del terzo tipo… grazie.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-District_9_Come_guardare_i_gamberoni_con_occhi_diversi-3162.html

Ricky - Una storia d'amore e libertà

Anno: 2009
Regia: François Ozon
Distribuzione: Teodore Film

Liberamente ispirato al racconto Moth (falena) scritto da Rose Tremain, Ricky. Una storia d’amore e libertà potrebbe essere inteso come una sintesi perfetta del cinema di François Ozon.

Katie, giovane donna divisa tra la figlia e il lavoro, un giorno incontra Paco, operaio affettuoso ma dai modi rozzi. Tra i due scoppia una cocente e sincera passione dalla quale nasce Ricky. Il frutto del loro amore ha però un dono inaspettato: due piccole ali, ogni giorno sempre più grandi…

Venato di inquietudine e amarezza, Ricky. Una storia d’amore e libertà rimane in equilibrio perfetto tra dramma e commedia. Lo stile registico di Ozon riesce a trasformare una semplice (e volendo dire anche banale) storia d’amore, in un racconto pieno di suggestioni e significati. Ricky impersona l’amore universale, rinchiuso in una casa che somiglia più a una gabbia e costantemente messo in pericolo dai suoi stessi famigliari. La sorella, a un certo punto, avvicina delle forbici alle sue ali; la madre non vuole lasciarlo volare; il padre, invece, lo vede come fosse un “corpo estraneo”. Una anomalia. Una creatura bellissima, ma al tempo stesso bizzarra. Da questo contesto Ricky vuole fuggire. Ed esprime questo desiderio fin da subito. Come se in effetti lui stesso non facesse parte di questo mondo. Come se sapesse di esserne un simbolo.Ozon sguazza nei temi a lui congeniali: maternità, femminilità e infanzia perduta, regalandoci anche una sequenza finale davvero molto evocativa.

La sceneggiatura vive di balzi in avanti, di ellissi che fungono da sintesi delle fasi salienti di una comune storia d’amore. Il testo narrativo si fa quindi presto onirico e il film assume poliedrici significati. Ricky potrebbe essere al tempo stesso la libertà e il rimorso. Il peccato e la voglia di vivere. Un figlio, come un angelo vero e proprio. L’umanità o il singolo uomo. E tutte queste interpretazioni alla fine diventano una, unica certezza. Che il mondo ha un disperato bisogno di amore. Sembra il testo di una vecchia canzone, invece è un film bellissimo.

Diego Altobelli (09/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Ricky___Una_storia_d_amore_e_liberta_La_liberta_e_un_angelo_caduto_in_volo-3113.html

Segnali dal futuro

Anno: 2009
Regia: Alex Proyas
Distribuzione: Eagle Pictures

Sì, c’è Nicholas Cage che ha visioni apocalittiche provenienti dal futuro, ma non è Next. Si tratta invece di Segnali dal futuro, nuova (e più interessante) fatica cinematografica di Alex Proyas. Ora, alzi la mano tra i presenti chi non ha mai sentito nominare questo regista in passato. Come volevasi dimostrare vedo molte mani alzate, e invece dovreste ricordarvi di lui. Anzi, sembra un paradosso ma quando scoprirete i titoli dei suoi film direte: “Ehi, ma è il mio regista preferito!”. Scommettete? Vi dice niente Il corvo? E Dark City? E Io, Robot? Ebbene, sono tutti film diretti da Alex Proyas e per saperne di più vi rimando all’approfondimento di Moviesushi.

Anni ’50. In una scuola elementare viene seppellita una scatola del tempo con dentro i disegni dei bambini a tema: come vi immaginate il futuro?Oggi. John è un professore di astrofisica a cui il destino, certamente, ha giocato un brutto scherzo. Alla morte della moglie, John si è ritrovato infatti ad accudire il figlio Caleb, giovanissimo e con la passione per gli animali e la scienza in genere. Quando viene dissotterrata la scatola e consegnati agli alunni i disegni appartenuti alla vecchia classe, a Caleb capita un foglio con su scritto una serie di numeri apparentemente senza senso. A John non ci vorrà molto per capire che in realtà quei numeri indicano le date delle catastrofi avvenute negli ultimi cinquant’anni…

Decisamente il regista Alex Proyas è uno di quelli che si lasciano vedere sempre con rinnovato interesse e attenzione. E capita anche quando, come in questo caso, ci si ritrova davanti un film molto... “rischioso”. Sì, rischioso. Soprattutto a causa del tema del film (la premonizione catastrofica del futuro certamente non è nuova al cinema) e poi per la trama, fin troppo improbabile. Lo scivolone è dietro l’angolo, quindi, ma Proyas dimostra a tutti che anche con un plot inverosimile e un genere che poco o nulla ha di nuovo da offrire, si può realizzare un buon film.

Ecco quindi che il regista cosparge la pellicola di intuizioni visive pregevoli (come la scena del primo incidente, o l’incubo del bambino a metà film). Poi suggerisce, sempre con le immagini, vari parallelismi (uomo - animale; religione - destino). Infine gioca con il pubblico, presentando un triplo finale mistico / new-age che accontenta tutti. Un ottimo e sapiente lavoro di regia, insomma.

Buona anche la recitazione, con uno dei migliori Cage di sempre. Merito della sceneggiatura scritta a più mani: prevedibile, ma mai banale.

Se riuscirete a resistere ai soliti cliché del genere catastrofico - per cui dallo spazio ci comunicano le cose sempre tramite numeri (ma una bella lettera di presentazione no?) e per cui il protagonista della storia chissà perché è sempre un uomo, problematico e molto tormentato (se non volete darci una donna, datecene almeno uno ricco e famoso!) – vi godrete appieno uno dei migliori film catastrofici degli ultimi anni con delle scene di panico che non dimenticherete facilmente. I fan del genere sono avvisati.

Diego Altobelli (08/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Segnali_dal_futuro_Come_ti_salvo_il_mondo-2893.html

L'era glaciale 3 - L'alba dei dinosauri

Anno: 2009
Regia: Carlos Saldanha
Distribuzione: 20th Century Fox

Torna la bizzarra famiglia de L’era glaciale in una nuova avventura ambientata nel sottosuolo e completamente in 3-D. E già, il sottotitolo L’alba dei dinosauri a pensarci bene contrasta il nuovo sistema visivo adottato, ora e con ottimi risultati, anche dai ragazzi della 20th Century Fox.

Il terzo episodio comincia con dei modus operandi piuttosto ordinari. Ellie, compagna mammuth di Manny, è in dolce attesa e la tigre Diego litiga proprio con il grosso amico perché non crede di sentirsi a suo agio nei panni di “zio acquisito”. La voglia di famiglia assale invece Sid il bradipo, anima combina guai del gruppo, che in un impulso troppo emotivo preleva uova di dinosauro da una tana sotterranea. Quando la mamma Rex scopre il fattaccio riprende i cuccioli e rapisce Sid, trascinandolo nel sottosuolo. Agli altri del gruppo il compito di riportarlo in salvo…

Con toni in stile Viaggio al centro della terra, il regista Carlos Saldanha raddrizza il tiro dopo il meno convincente L’era glaciale 2 – Il disgelo. La trama si fa più articolata, le scene di azione aumentano, vorticando anche grazie all’uso del nuovo sistema in 3-D, e si aggiungono persino allegorie visive suggestive e, a voler essere pretenziosi, anche “profonde”. I personaggi intraprendono un viaggio nelle profondità della terra che somiglia molto a un viaggio salvifico verso l’Umanità. Attraversano un ponte fatto di ossa, si fanno aiutare da un reietto che li guida su dei pterodattili piuttosto che su zattere in mezzo alla lava, combattono mostri giganteschi e terribili. Il tutto mentre la povera Ellie sta per partorire una piccola e dolcissima mammuth aggredita da velociraptor che rappresentano la corruzione e il male. Nell’inferno che i protagonisti affronteranno ritroveranno se stessi e il loro legame, profondo e indissolubile. Il buonismo vincerà, certo, e l’equazione famiglia stramba = famiglia fortunata (e felice) si ripeterà come negli altri episodi divenendo ufficialmente il leit motiv di tutta la serie.

Il risultato è un film per certi versi suggestivo, per altri avvincente, a cui forse manca quel senso per la novità e l’innovazione che aveva caratterizzato il primo, ineguagliato, episodio.

Infine, per la gioia dei fan aumentano i momenti in cui protagonisti sono Scrat e la sua ghianda: mai come in questo caso metafora di una libertà irraggiungibile e mirabile. Vedere per credere.

Diego Altobelli (08/2009)