venerdì 7 dicembre 2007

L'età barbarica

Anno: 2007
Regia: Denys Arcand
Distribuzione: Bim

Jean-Marc è un impiegato statale che sta attraversando una fase molto difficile della sua vita. La moglie infatti, lo ha appena lasciato abbandonandolo con le figlie. Per Jean-Marc non rimane altra scelta che rifugiarsi nella fantasia...

A quattro anni dalle "Invasioni barbariche" Denys Arcand torna a parlare della sua terra d’origine, mettendo in luce tutte le idiosincrasie, le insicurezze, e le contraddizioni del popolo canadese. "L'età barbarica" del titolo Arcand la rintraccia nella chiusura mentale e nell'incomunicabilità che caratterizzano i nostri tempi. Il protagonista, un uomo qualunque di nome Jean-Marc, inizialmente cerca di fuggire dal "medioevo" che lo circonda, attraverso fantasticherie e visioni al limite del grottesco (belle donne da sodomizzare, tornei tra cavalieri, galere in partenza verso il mare aperto, ecc.); poi, trovando rifugio in un vecchio cottage che apparteneva al padre, l’uomo finisce per accettare il suo tempo e le follie che lo caratterizzano, senza tentare di esorcizzarle con immaginazioni ancor più folli.

La regia di Denys Arcand colpisce ancora. Il suo ritmo pacato, ma pungente e la regia garbata eppure malinconica, attraggono lo spettatore avvolgendolo e strappandogli, di quando in quando, qualche sorriso accondiscendente. Pur non raggiungendo l’intensità del precedente capitolo, “L’età barbarica” coinvolge e sa lasciare nel pubblico una sottile nota malinconica. Una pellicola elegante e intelligente che conferma il talento del regista.

Diego Altobelli (12/2007)

Paranoid Park

Anno: 2007
Regia: Gus Van Sant
Distribuzione: Lucky Red

Dopo “The last days” e, soprattutto, “Elephant”, Gus Van Sant torna dietro la cinepresa a dirigere un film che descrive ancora una volta l'inquietudine e l'apatia dell'essere adolescenti.

Alex è un giovane appassionato di skateboard. Una notte, scappando da una guardia che vorrebbe trattenerlo, il giovane spinge accidentalmente l’uomo su un binario uccidendolo. Superato lo smarrimento iniziale, Alex decide di non raccontare nulla dell'accaduto…

Per "Paranoid Park" Gus Van Sant fa ciò che gli riesce meglio: fotografare la quotidianità dei giovani di oggi.
Apatia, inquietudine, delusione, noia, sono tutti sentimenti che con mano lucida Van Sant riesce a far emergere, a portare alla luce con estrema nitidezza registica. Inoltre, senza mai lasciarsi andare alla tentazione (voglia?) di esprimere un giudizio su quanto accade sullo schermo, il regista statunitense tratteggia una vicenda che ricorda molto da vicino, pur con le dovute distinzioni del caso, quella narrata in "Elephant".
Purtroppo però, pur essendo Gus Van Sant regista poliedrico che ci ha abituato a film di vario spessore e genere, con questo “Paranoid Park” non riesce a toccare le corde più intime e profonde dello spettatore. Alla noia generale di un soggetto che non spicca mai il volo, Van Sant rimedia alternando immagini in 35mm (usate per raccontare la vicenda), a quelle girate in super8 (utilizzate per mostrare le evoluzioni di alcuni ragazzi con il loro skate).
Andare sullo skateboard su e giù per le varie rampe diventa quindi per il regista la giusta allegoria dell’inquietudine, dell’apatia, e della frustrazione di un ragazzo qualunque.

L’abulica regia è però ben sostenuta dalla musica, che spazia nei temi di accompagnamento proponendo anche brani diretti dall’italiano Carlo Savina tratti da “Amarcord” e “Giulietta degli spiriti”. Rimane impressa, a tal proposito, la scena che vede Alex lasciare la giovane Jennifer: l’idea di non sentire le parole di rabbia della ragazza e di sostituirle con la musica di Savina risulta molto ispirata.

Tirando le somme “Paranoid Park” è un film che ha dalla sua armi come la buona tecnica registica (intima come una fotografia), e il buon montaggio (musica e immagini si sposano perfettamente). Purtroppo però il film mira in alto e malgrado l’esperienza e la tecnica che lo hanno realizzato, alla fine ci si chiede se tutte quelle evoluzioni con lo skateboard e quei continui primi piani non siano stati inseriti furbescamente al fine di sopperire alla mancanza di idee e allungare un brodo già visto.

Diego Altobelli (12/2007)

Hitman - L'assassino

Anno: 2007
Regia: Xavier Genz
Distribuzione: 20th Century Fox

Ispirata all'omonima serie di videogame, sbarca nelle sale, “Hitman – L’assassino”, film di spionaggio diretto da Xavier Gens.

L'Agente 47 è un killer a pagamento al soldo del governo russo per far piazza pulita di vari personaggi scomodi appartenenti alla politica. Quando però gli viene dato l'incarico di uccidere un capo di stato dell'Europa dell'Est, l'agente 47 scopre che in realtà si tratta di una trappola tesa dalla sua organizzazione per toglierlo di mezzo...

Trama confusa al servizio di una regia conforme alla mediocrità generale. Timothy Olyphant, già visto nell'ultimo capitolo di “Die Hard”, veste i panni di questo killer a pagamento che non offre nulla di nuovo al pubblico. Luoghi comuni e frasi che vorrebbero essere “a effetto” senza riuscirci, modellano un soggetto particolarmente confuso e povero di idee. Intorno a lui un delirio di “genere” poco appagante. Al fianco dell'Agente 47, infatti, troviamo la classica prostituta bisognosa di affetto e dal passato tragico; dietro di lui l’organizzazione che gli dà la caccia per motivi non chiaramente esplicitati; davanti a lui la CIA, l'Interpol e tutto il “cucuzzaro” delle varie organizzazioni governative... Nel caos in cui si muove il protagonista non troppo convinto, di chiaro non c'è nemmeno l'ambientazione. Europa dell'Est? No, è la Francia, forse Parigi. O il Belgio, forse Bruxelles. Si vede un albergo, poi una fabbrica, poi ancora un casinò. Troppo disordine nelle idee al servizio di una recitazione da "minimo sindacale" e un'assenza generale di “appeal” davvero sconfortante.

Insomma, "Hitman - L'assassino" è un prodotto che, se avesse sfruttato le buone idee che vi erano nel videogioco da cui è tratto poteva ambire a divenire una pellicola intensa come sono, a volte, certi film di genere. Così com'è, invece, risulta debole e apatico, come sono, alle volte, certi videogiochi...

Diego Altobelli (12/2007)

martedì 4 dicembre 2007

Vip - Mio fratello superuomo

Anno: 1968
Regia: Bruno Bozzetto

Bruno Bozzetto viene considerato come un “cugino maledetto” di Walt Disney. Quello dimenticato, quello che si vuole nascondere o perché conosce verità scomode, o perché conosce il modo per comunicarle.
Come a dire: se Walt Disney avesse avuto in famiglia un parente dal carattere difficile, probabilmente sarebbe stato Bruno Bozzetto. A riprova di ciò, nel 1968 l'artista milanese ci regala "Vip- Mio fratello superuomo", un film che già dal titolo promette di smontare tutti i punti cardinali su cui si poggiano le serie super-eroistiche dei comics americani, lanciando al contempo una critica feroce al sistema televisivo e al malcostume italiano.

SuperVip e MiniVip sono gli ultimi due discendenti di una stirpe di superuomini. Il primo è alto, atletico, e incarna tutte le caratteristiche di un giovane Superman; il secondo invece è di bassa statura, impacciato, profondamente insicuro e timido. In seguito a un viaggio in crociera organizzato da Supervip per aiutare il fratello minore a recuperare un po’ di autostima, MiniVip entra in contatto con una organizzazione criminale guidata dalla diabolica Happy Betty e da un dottore matto - "made in Germany"(!). Toccherà ai due superuomini combattere l'organizzazione e salvare l'umanità da un futuro dedito al consumismo...

Trama forzatamente rocambolesca al servizio di una satira pungente indirizzata alla politica, alla società, e alla televisione del bel Paese. Ciò che colpisce oggi di "Vip - Mio fratello superuomo" è l'attualità dei temi trattati. Il maestro Bruno Bozzetto disegna e dirige magistralmente un film che per l'epoca presentava standard qualitativi notevoli (dimostrabile nella fluidità delle animazioni), pur rimanendo fedele al tratto essenziale che lo ha reso famoso e usufruendo di una regia affatto scontata e sempre funzionale all'azione. Vere e proprie intuizioni e rimandi colti e non (si noti il leone simile a quello codardo incontrato a Oz, che poi si rivela essere una fanciulla bellissima), si susseguono in un viaggio a metà strada tra l'immaginario di Bozzetto e la società di quegli anni. Dai supereroi fino ai vari "James Bond", passando persino per i televisivi "Lascia o raddoppia?". Impossibile poi non riflettere davanti al castello di Happy Betty, la strega cattiva che si muove su un trono cingolato: la sua dimora è una specie di fabbrica psichedelica - come quella di un futuro "Willy Wonka” – dove si creano esseri girando una specie di ruota della fortuna. Immaginifico.

Nel 1968, quindi, Bruno Bozzetto sforna un altro personaggio destinato a entrare nell'immaginario comune italiano. Dopo il mitico “Signor Rossi” e il lungometraggio "West and Soda" ecco arrivare "Vip - Mio fratello superuomo", un film che incarna tutto l'immaginario di Bozzetto (fatto di battute, frecciate, e di rarefatta malinconia), ponendolo su un piano super-eroistico. Un film che è la visione di un mondo votato al consumismo sfrenato e all'apparire. Bozzetto lo aveva capito nel 1968, e ce lo aveva pure mostrato. C'è gente che ancora adesso, invece, non ha capito niente.

Se Walt Disney avesse avuto un fratello bastardo, dicevamo, sarebbe stato Bruno Bozzetto. Il suo tratto essenziale, difficile, modesto, l'animazione fluida, ma troppo rapida, le sue storie più vere di quanto non vogliano essere, tutto si contrappone all'immaginario disneyano della perfezione. Bozzetto la trova su un’isola, ma da quella scappa, salvando l'umanità...

Diego Altobelli (12/2007)

lunedì 3 dicembre 2007

Winx Club - Il segreto di un Regno Perduto

Anno: 2007
Regia: Iginio Straffi
Distribuzione: 01 Distribuzione

Le Winx nascono dalla mente di Iginio Straffi e le sue storie sono diventate da subito le più l;ette in Europa. Un caso editoriale senza precedenti che ha visto il susseguirsi di serie animate e lungometraggi. L’ultimo nato è proprio “Winx Club – Il segreto di un Regno Perduto”, un film che poteva essere un gran colpo per l’animazione italiana, ma che invece ci ricorda come siamo ancora indietro su questo campo rispetto al resto del Mondo.

Sedici anni fa i maghi guerrieri hanno affrontato il Male Assoluto nel regno di Domino. Oggi il “Regno Perduto” è di nuovo in pericolo, spetterà alle Winx, un gruppo di fate con poteri magici, combattere le bestie Incubo e scovare l’ultimo Re di quel regno…

A onor del vero “Winx Club – Il segreto di un Regno Perduto” ha il pregio di essere il primo film di animazione in Italia completamente realizzato in Computer Grafica. Tanto dispendio di energie al servizio di una favola per ragazzine che vedono nelle varie Paris Hilton della televisione l’unico punto di riferimento. Le Winx si muovono volgari, ammiccando qua e là qualche sguardo provocante e sculettando con le loro belle alette, mantenendo al contempo uno standard qualitativo di molto inferiore ai concorrenti stranieri. Doppiaggio fuori sincrono, animazioni scialbe, trama prevedibile e indietro di circa venti anni sul resto del Mondo, e una voce fuori campo che con la narrazione cerca di ovviare all’incapacità dei realizzatori di riprodurre ciò che viene raccontato in soli 75 minuti di girato. Un tonfo.

Insomma “Winx Club – Il segreto del Regno Perduto” è un film che lancia l’Italia nel mondo del 3D. Speriamo in futuro con risultati migliori.

Diego Altobelli (11/2007)

Diario di una tata

Anno: 2007
Regia: Shari Springer Berman, Robert Pulcini
Distribuzione: 01 Distribuzione

La bella Annie sta passando un periodo un po’ difficile della propria vita: entrare al college o prendersi un anno sabbatico? La scelta ricade sulla seconda opzione e così accetta di lavorare come tata presso una famiglia altolocata newyorchese. Lì fa la conoscenza del piccolo Grayer, ragazzino difficile che però gli insegnerà a vivere la propria vita in modo più coscienzioso…

Rivisitazione in chiave moderna di “Mary Poppins”, senza la magia “disneyiana” ma con lo stesso ombrello volante che, all’insaputa dei protagonisti, continua a volteggiare nei medesimi cieli di New York. Scarlett Johansson veste i panni di una tata pasticciona e senza la benché minima idea di cosa fare per prendersi cura di un ragazzino di appena sei anni, ma con tanto impegno e un pizzico di buon senso riuscirà a sostituirsi perfino ai genitori del piccolo.Pellicola gradevole dove la critica sociale è in agguato a ogni fotogramma: genitori troppo presi da se stessi per accorgersi di quanto il loro figlio abbia bisogno della loro attenzione, si contrappongono a una giovane studentessa senza prospettive nel futuro se non quella di mettere per iscritto le sue esperienze come tata. Fortunatamente il film si rivela sufficientemente intelligente e garbato per non risultare retorico e pretestuoso. Una regia a quattro mani firmata dal duo Berman- Pulcini mantiene la pellicola su standard qualitativi modesti, sia per ritmo che per trama, sostenuta, semmai, dall’ottimo cast di attori: Paul Giamatti e la splendida Scarlett Johansson spiccano comunque su tutti.

Con una sceneggiatura dal retrogusto nostalgico, che richiama spesso a vecchie favole, “Diario di una tata” si dipana timidamente verso un finale aperto. Un film che non convince del tutto, ma che si lascia comunque apprezzare.

Diego Altobelli (11/2007)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1776