venerdì 11 dicembre 2009

Dragonball Evolution

Anno: 2009
Regia: James Wong
Distribuzione: 20th Century Fox

Destino ingrato quello che perseguita le pellicole tratte da Manga e Anime famosi. Infatti, i cosiddetti "live action" risultano spesso approssimativi, il più delle volte grossolani, e recitati sempre senza cognizione di causa. Questa tendenza viene confermata soprattutto quando sono gli americani ad accaparrarsi i costosi diritti del fumetto di turno. Accadde nel lontano 1995 con l’inguardabile "Fist of the North Star" (aka "Hokuto no Ken", meglio noto in Italia come "Ken il guerriero"), venne ripetuta con l’ambizioso "Crying Freeman" di Cristophe Gans, e oggi avviene con il film ispirato alla celeberrima graphic novel di Dragonball a cui arbitrariamente è stato aggiunto il sottotitolo di "Evolution".Siamo certi che di quello che è stato fatto Akira Toriyama, il famosissimo autore del manga, pretenderà delle spiegazioni.

Il diciottenne Goku è un giovane imbranato che si divide tra gli allenamenti di arti marziali impartiti dal nonno Gohan e gli impegni della scuola. Un brutto giorno, Gohan viene attaccato da una killer al servizio del malvagio alieno Piccolo. Goku, rinvenuto il corpo senza vita del nonno, parte all’inseguimento del malvagio tiranno, ma l’unico modo che ha di sconfiggerlo è rintracciare le leggendarie sette sfere del drago capaci, quando raggruppate, di esaudire qualunque desiderio...

Giudicare approssimativo "Dragonball Evolution" diretto da James Wong (regista di "Final Destination" e "The One") sarebbe come fargli un complimento. Senza voler tediare il lettore elencando le numerose differenze visive e narrative del film rispetto al manga, basta dire che la pellicola di Wong risulta "tirata via" come poche altre cose viste al cinema negli ultimi dieci, forse anche venti anni. Per avere un’idea dello scempio compiuto da regista, cast e produzione, bisogna ripensare a film come "Capitan America" del 1992, al primo live action dei "Fantastici quattro" o, andando ancor più indietro con la memoria, ai film anni Settanta dedicati all’Uomo Ragno. In quei prodotti, come in questo, i plot e le linee narrative del trend a cui si ispiravano venivano stravolte a favore di una non condivisibile re-interpretazione del regista. Nel caso di questo Dragonball, inoltre, abbiamo delle aggravanti che non possono passare sottosilenzio. La prima è naturalmente il costoso budget di cui comunque Dragonball dispone rispetto a quelle pellicole; la seconda è la non considerazione di un miglioramento tecnico e stilistico che i film tratti dai fumetti hanno avuto dallo "Spider-Man" di Sam Raimi sino a oggi; infine, la presenza di un cast di attori mai così palesemente svogliati come in questo caso. A questo proposito basti dire che persino Chow Yun-Fat, che per la cronaca fu protagonista di kolossal come "Anna and The king", riesce a risultare digeribile descrivendo un maestro Tartaruga (chi ha letto il manga sa a cosa ci riferiamo) fumoso e senza peso.

Insomma lapidario è il giudizio: "Dragonball Evolution" risulta inconcludente e fondamentalmente privo di senso. Da qualunque lato della sala lo si guardi. No, il fatto che il prodotto sia indirizzato a un pubblico di giovanissimi non è un attenuante.Semmai, una ulteriore aggravante.

Diego Altobelli (04/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/dragonballevolution.htm

Leggi qui la recensione la recensione a Moviesushi

Disastro a Hollywood

Anno: 2009
Regia: Barry Levinson
Distribuzione: Medusa

Tratto dal romanzo "What Just Happened: Amare dal fronte di Hollywood" scritto da Art Limson, "Disastro a Hollywood" è una commedia irriverente sullo sfondo dello star system americano.

Ben è un produttore cinematografico che, a causa dell’imminente presentazione di un suo film alla Mostra del cinema di Cannes, vive due settimane infernali. Deve vedersela infatti con un regista troppo artista per essere compreso, le idee perbeniste della executive producer, una moglie traditrice e un attore che non vuole tagliarsi la barba per interpretare il suo prossimo film...

Il regista Barry Levinson ci propone il meccanismo narrativo del cinema dentro il cinema, inflazionato, a dire il vero, sin dai tempi di "Hollywood Party". Pur avendo firmato sceneggiature di successo come "Good Morning Vietnam" e "La tempesta perfetta", Levinson invero non ci presenta una pellicola particolarmente originale. Le varie trovate comiche, infatti, come la scena del funerale, o i momenti (più spassosi) in cui gli attori interpretano se stessi, in realtà sanno molto di già visto. Inoltre, la rarefatta malinconia che si respira nel sottotesto filmico, non basta a donare al film quella profondità cui probabilmente voleva ambire.

Bravissimi gli interpreti, per un film che forse vale la pena vedere effettivamente solo per loro. Sean Penn e Bruce Willis nei panni di loro stessi appaiono divertiti come in poche altre occasioni. Le signore Robin Wright Penn e Catherin Keener spalleggiano Robert De Niro con grande classe. Ma è proprio quest’ultimo, infine, a lasciare il segno. Mai così istrionico, De Niro firma una delle sue migliori interpretazioni in un film spassoso, ma a conti fatti piuttosto scontato.

Diego Altobelli (04/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/whatjusthappened.htm

Whisky

Anno: 2004
Regia: Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll
DIstribuzione: Kitchen Film

Diretto a quattro mani da Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll, "Whisky" è una commedia caratterizzata da toni decisamente poco allegri. Un humour stentato e silenzioso dirige un trio di attori stanchi e poco vitali, come voluto dalla sceneggiatura.

La storia narra le gesta di Jacobo che, venuto a sapere della visita a sorpresa di suo fratello Herman, chiede a Marta, la sua devota assistente di una fabbrica di calzini, di fingere di essere sua moglie. Lei accetta di buon grado, ma l'arrivo di Herman è destinato a segnare le loro vite...
Film stantio e soporifero, senza mezzi termini; una trama anche interessante se non fosse che per tutta la durata del film non succede quasi niente. Il "quasi" è giustificato da un piccolo colpo di scena sul finire del film. Sorpresa che però non cambierà né i toni sommessi della pellicola, né l'interpretazione dei personaggi, né ancora il giudizio purtroppo piuttosto negativo del film.
"Whisky" vorrebbe risultare interessante in un epoca in cui le commedie cinematografiche hanno ritmi e toni decisamente diversi dai suoi. Toni terribilmente lenti, stanchi, e privi di qualunque tipo di verve umoristica. Fattori che uniti a una recitazione quasi assente, una trama svogliata, e una regia più attenta a ripetersi che non a evolversi, rendono la pellicola letteralmente noiosa.Peccato.

La colonna sonora è, tra l'altro, quasi assente, con un unico momento in cui la musica, cantata da una ragazzina in un albergo di quart'ordine, riesce a risollevare in minima parte un lungo momento di silenzio cinematografico.Dialoghi anch'essi stanchi, privi di umorismo, stantii e lenti.
Sì, capiamo che tutti questi elementi erano voluti, ma davvero non si possono considerare interessanti.

Diego Altobelli (2004)
estratto da http://filmup.leonardo.it/sc_whisky.htm

giovedì 10 dicembre 2009

Ninja Assassin

Anno: 2009
Regia: James McTeigue
Distribuzione: Warner

Quando videogame e manga si incontrano sul grande schermo, può capitare di trovarsi di fronte a ibridi come questo "Ninja Assassin", diretto da James McTeigue già regista del buon adattamento di "V for Vendetta".

Raizo è un orfano trasformato da bambino in spietato assassino dal clan Ozunu. Quando però le dure regole del clan condannano a morte una persona molto vicina a Raizo, quest’ultimo decide di tradire il gruppo. Raizo, inseguito e braccato dai suoi vecchi compari, si ritroverà coinvolto in una guerra tra gang di stampo mafioso...

Chiarito che il riferimento iniziale a videogame o fumetti è solo un pretesto per scoprire la natura mordi e fuggi di Ninja Assassin, bisogna dire che la regia di McTeigue questa volta si abbandona totalmente all’azione più sfrenata, concedendosi più di una incursione nel vero e proprio "splatter". Il che si traduce visivamente in smembramenti, squartamenti, amputazioni e una pioggia di sangue praticamente ininterrotta dall’inizio fino ai titoli di coda. Da leccarsi i baffi, insomma.

Il ritmo tachicardico, inoltre, asseconda una sceneggiatura a intrecci scritta dalle abili mani di J.M. Straczjnski, in questa sede decisamente influenzato dal trascorso nel mondo dei comic. Il risultato però non soddisfa. Personalità stereotipate e soluzioni già viste spalleggiano i dialoghi che vorrebbero apparire impegnati (della serie: "Ne resterà solo uno", modello Highlander), ma che invece risultano assai buffi e a volte persino fuori contesto.

Rimane il soggetto, allora, affascinante e intrigatante, basato com’è sul mito antico dei guerrieri ombra. Ma è troppo poco. Senza neppure degli attori efficaci, si finisce per grattarsi la testa davanti un mare di sangue un po' spaesati e con la voglia di ripescare Van Damme, Dolph Lundgren, Steven Seagal e compagnia bella.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/ninjaassassin.htm

L'uomo nero

Anno: 2009
Regia: Sergio Rubini
Distribuzione: 01 Distribuzione

Potrebbe essere interpretata come una pellicola di ritorni il nuovo lavoro di Sergio Rubini – regista dal titolo L’uomo nero. Ritorno di temi, come l’ossessione per l’arte, di territori, la Puglia, di luoghi, la stazione (luogo in cui era ambientata la prima pellicola di Rubini), e di attori, Sergio Rubini e Riccardo Scamarcio al loro secondo lavoro insieme. E parte da un ideale ritorno anche la trama, strutturata in un lungo flashback.

Puglia. Gabriele Rossetti, al capezzale del padre morente, rivive la propria infanzia. Torna indietro con la memoria e rievoca le ossessioni del genitore per l’arte di Cézanne, la simpatia per lo zio che lo consiglia in “amore”, e la paura suscitata dall’ombra di un inquietante Uomo Nero. Rivivendo la propria fanciullezza, Gabriele comprenderà le origini delle sue angosce da adulto…

Verrebbe da dire che ancora una volta Sergio Rubini pecca di ingordigia. A una prima analisi L’uomo nero sembra l’ennesimo film in cui il regista di Tutto l’amore che c’è condensa troppi validi elementi. L’arte, l’amore, la passione, il conflitto psicologico, vari intrecci e vari personaggi, la realtà storica della trama (Puglia, anni Sessanta), l’ossessione per lo sguardo. Questa volta però, Rubini riesce a mantenere integro il filo del discorso. Se Colpo d’occhio (pellicola che la critica non gli ha perdonato) appariva pretenzioso nel ruolo di thriller psicologico, L’uomo nero torna a muovere corde più idonee al regista: quelle della commedia dolce amara. Rubini inoltre riprende il fare introspettivo del suo Cinema insieme alle motivazioni vagamente biografiche che lo hanno sempre mosso. Intimo e suggestivo, con L’uomo nero il Cinema di Rubini ritrova quella onestà intellettuale che in Colpo d’occhio pareva essergli sfuggita di mano.

Alla riuscita del film collabora attivamente anche l’eccellente cast. Sergio Rubini fa (a ragione) la voce grossa, ma Riccardo Scamarcio (che nel film è il disinvolto zio Pinuccio) lo eguaglia, convincendo il pubblico che nei ruoli “adulti” da’ il meglio di sé. Nessuna novità invece per Valeria Golino: come al solito, al tempo stesso efficace e sfuggente.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-L_uomo_nero_Ritorno_alle_origini_allontanando_le_ombre-3877.html

A serious man

Anno: 2009
Regia: Ethan e Joel Coen
Distribuzione: Medusa

Annichilente rappresentazione dell’esistenza umana. I fratelli Coen questa volta ci vanno giù pesante e con A serious man firmano quello che può tranquillamente essere definito come il loro capolavoro. Sicuramente, il lavoro più personale e intimo della loro filmografia.

Preparatevi, signore e signori. Quello che state per vedere è un film che non concederà nulla allo spettatore. Dimenticatevi cose come l’immedesimazione e il coinvolgimento. Dimenticatevi l’happy ending. Esiste solo il racconto, la diegesi. Esiste solo la catarsi. Ebbene, godetene. Si spengono le luci e Joel e Ethan Coen (come fanno sempre nel loro Cinema) immergono a forza la testa dello spettatore in una immaginaria bacinella d’acqua dove confluiscono le immagini. Poi gridano: “Apri gli occhi!”. Gridano: “Guarda!”. Se avete visualizzato quanto scritto, potreste avere un’idea vaga della potenza di A serious man, una pellicola che avvicina i registi di Non è un Paese per vecchi allo stato dell’Arte.

In A serious man il protagonista è Larry Gopnik, e guardandolo verrebbe da dire: l’apoteosi dell’uomo fuori posto e fuori dal tempo. Da tutti i tempi. In procinto di divorziare, con dei figli che gli rubano soldi e fumano spinelli, con un capo al lavoro che preferisce ascoltare le lamentele di gente sconosciuta piuttosto che fidarsi di lui… A Larry succede di tutto e in poco tempo. Però lui ha un unico fine nella sua vita: essere una persona seria. Disciplinata. In qualche modo “logica” come la materia che insegna: la fisica. Per riuscirci chiederà aiuto a vecchi rabbini…

Claustrofobico fino all’esaurimento, con un ritmo “adagio”, alla ricerca continua di uno scossone, di una smossa e di una svolta, A serious man descrive la vita com’è. Senza fronzoli, senza divagazioni divertite e senza speranze. E la comicità, quando fa capolino nel racconto, è cinica e grottesca, nerissima. Come a dire: si ride per non piangere.

Il racconto dei Coen è “kafkiano” perché narra dell’impossibile incontro tra Larry e l’Assoluto, ovvero la soluzione ai suoi problemi: Dio. I Coen affondano quindi le mani nella religione ebraica e la chiave di lettura per il loro film è tutta lì. In una religione basata sull’attesa. Sulla non-reazione. Quale divertimento? Piuttosto utopistiche speranze. Incomprensibili rituali e formule che confluiscono nel linguaggio Yiddish e nella Cabala. Insomma, l’Incomprensibile è oggi fuori tempo massimo, suggeriscono i Coen, e cercare di dargli un senso è fatica sprecata. Esiste solo il Caos.

Nel film dei Coen non c’è niente, eppure c’è tutto. Critica sociale, critica religiosa, critica culturale. Con tutti i limiti dell’Uomo messi in mostra sul grande schermo per essere "sezionati". Freddo, distaccato, difficile. Un rompicapo? No, un autentico capolavoro.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-A_Serious_Man_I_fratelli_omaggiano_il_Caos-3891.html

Magari le cose cambiano

Anno: 2009
Regia: Andrea Segre
Distribuzione: Off!Cine

Il giovane regista di Come un uomo sulla Terra e Mal’ombra torna al Cinema per parlare di emarginazione con Magari le cose cambiano, pellicola “indipendente” che riserva più di una sorpresa.

Neda è una “romana de roma” cresciuta negli anni Sessanta nel centro storico della Capitale, poi trasferitasi (più per necessità che per voglia) nel quartiere di Ponte di Nona, alla periferia di Roma a sei chilometri dal Grande Raccordo Anulare. Il documentario di Andrea Segre segue i pensieri e i ricordi di Neda e di Sara, una ragazza di diciotto anni, per denunciare l’abbandono edilizio e civico di un quartiere che voleva assurgere al ruolo di “nuova centralità”...
Presentato da Nanni Moretti in persona, il documentario di Andrea Segre riesce a far riflettere e, al tempo stesso, a divertire.

Il primo affondo l’abbiamo a circa un quarto d’ora dall’inizio della pellicola quando, nel continuo lamentarsi di quanto la situazione del quartiere sia abbandonata a se stessa, la testimonianza “fortuita” di una anziana signora rimette tutto in discussione. Persino le intenzioni iniziali di denuncia dello stesso documentario! Un film a rischio caduta, quindi? Nient’affatto. Magari le cose cambiano dimostra, al di là delle intenzioni più o meno riuscite e più o meno perseguite coerentemente, un’anima autenticamente popolare. E’ un film che fa parlare la gente, il popolo, la periferia, convincendo il pubblico delle loro ragioni. Un risultato affatto scontato.
Non mancano le incursioni nella denuncia di una certa politica (viene preso di mira l’Immobildream che “non vende sogni ma solide realtà”), e si avverte in generale un vago senso di smarrimento, come se il regista non sapesse di preciso quali direzioni prendere. Così com’è Magari le cose cambiano è quindi un film sicuramente impulsivo e a cui si finisce per voler bene, ma lontano, purtroppo, anche da quell’accuratezza cui il regista ci ha già abituati.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Magari_le_cose_cambiano_In_attesa_di_essere_visto_-3912.html

Senza amore

Anno: 2009
Regia: Renato Giordano
Distribuzione: Rai Cinema

Il regista Renato Giordano tenta il salto in lungo (passando come regista dal teatro al cinema) con una pellicola dedicata a un tema scottante e scomodo. A pochi giorni dalla notizia del maltrattamento da parte di due “maestre” nei confronti di bambini di pochi anni, Giordano presenta Senza Amore: film sulla pedofilia e sull’incapacità dei grandi di ascoltare i più piccoli.

In una piccola realtà vive Luigi, un bambino con alle spalle una famiglia ai margini della società. Il bambino, già con un carattere chiuso e senza amici, palesa atteggiamenti di insofferenza nei confronti del prossimo. Un giorno nella sua vita entra un uomo, un vigile, una persona qualunque che dimostra per lui un attenzione quasi paterna. Ben presto però la sua presenza si farà molto ingombrante…

Sembra un piccolo film chiuso in se stesso. Un po’ come il personaggio che racconta. Questo potrebbe essere il difetto maggiore che si evidenzia in Senza amore, ma anche la sua principale caratteristica. La regia di Renato Giordano, apprezzato autore di numerose commedie di teatro, appare influenzata dagli insegnamenti della scena. Un film che tratta un tema così scottante avrebbe avuto bisogno di quella incisività registica che a Giordano sembra essere mancata. Basterebbe citare M - Il mostro di Düsseldorf per ricordarci film che pure in tempi lontanissimi hanno parlato di pedofilia o violenza sui più piccoli. Giordano, preso dall’urgenza del dire, appiattisce la narrazione con toni didascalici. Esasperando il discorso, si potrebbe pensare che sia accecato dalla rabbia e dall'impellenza di “denunciare il fatto”. Il suo film quindi è un grido, e come spesso accade quando si è arrabbiati non ci si cura della forma.

Senza amore è un film che ci ricorda quanto male può fare il silenzio, e quanto troppo poco spesso non ascoltiamo la voce dei più piccoli. E i recenti fatti di cronaca sembrano in questo senso unirsi all’appello. Bravo Renato Giordano quindi per il suo tentativo di rompere un angosciante stato di cose.

Diego Altobelli (12/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Senza_amore_Un_grido_contro_il_silenzio-3919.html