giovedì 27 dicembre 2007

L'amore ai tempi del colera

Anno: 2007
Regia: Mike Newell
Distribuzione: 01 Distribuzione

Tratto dall’omonimo romanzo del premio Nobel Gabriel Garcìa Màrquez, “L’amore ai tempi del colera” è il nuovo film di Mike Newell: film sontuoso, romantico, e sospeso.

A cavallo del XX secolo viviamo l’amore di Fiorentino Ariza (Javier Bardem), un telegrafista che trova in Fermina Daza (Giovanna Mezzogiorno) l’unico senso della propria esistenza. Infatti, dopo aver incontrata la ragazza sullo sfondo di Cartagena, e averla vista (impotente) andare in sposa al medico Juvenal Urbino, Fiorentino passerà la propria vita nella speranza di riconquistare il proprio amore…

Si è parlato spesso dell’incapacità, ma è più giusto definirla “oggettiva difficoltà”, di trasformare un testo letterario in un contenuto di tipo cinematografico: nel caso del film di Mike Newell tale difficoltà è raddoppiata dall’importanza monumentale del romanzo preso in esame. “L’amore ai tempi del colera” è il libro che ha portato Gabriel Garcìa Màrquez ha ricevere il Premio Nobel per la letteratura. Testo profondo e coinvolgente il suo, caratterizzato da una prosa avvolgente che racconta quella che è con ogni probabilità una delle storie più romantiche mai scritte.
Detto ciò, Mike Newell (il regista versatile di “4 matrimoni e un funerale” e “Donnie Brasco”) fa tutto ciò che serve per uscirne comunque sconfitto, ma quantomeno a testa alta.
Il problema maggiore che si rintraccia nella pellicola, è una certa banalità nei dialoghi che, rievocando i versi aulici dello scrittore colombiano, finiscono per risultare addirittura ridicoli e più vicini al genere del fotoromanzo. Solo grazie all’attore Javier Bardem (bravissimo) il film riesce a non crollare del tutto sotto il peso di responsabilità di cui si fa carico. Più scarsa invece la recitazione della Mezzogiorno, quasi impaurita dal personaggio che interpreta.

“L’amore ai tempi del colera” è una pellicola troppo difficile e “svantaggiata in partenza” per risultare veramente riuscita. Rimane certamente il profondo rispetto per l’opera da cui trae origine; devozione che però porta il film a perdersi nel timore referenziale.

Diego Altobelli (12/2007)

lunedì 24 dicembre 2007

Buon NaTale a TuTTi!!!

Profondo Cinema (e quindi il sottoscritto) augura a tutti gli sprovveduti che passano di qui...

BUON NATALE!!!

Da parte mia un grosso abbraccio sincero!

L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford

Anno: 2007
Regia: Andrew Dominik
Distribuzione: Warner Bros.

Premiato come miglior attore all'ultimo festival del Cinema di Venezia, Brad Pitt veste i panni del bandito "romantico" Jesse James nella pellicola diretta da Andrew Dominik, adattamento per lo schermo del romanzo omonimo, scritto da Ron Hansen, dal titolo "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford".

La pellicola è un western psicologico che investe la maggior parte delle sue energie in una estetica essenziale quanto lacunosa, atta a rispecchiare la natura sospesa dell’animo del bandito Jesse James. Per descriverlo il regista rinuncia agli aspetti leggendari e punta tutto (o quasi) sul suo boia: Robert Ford. Quest’ultimo sembra prendere le parti (e a volte anche le sembianze) della morte che, muovendosi intorno a lui, ne disegna anche un’esistenza incompiuta e insoddisfatta. Così, attraverso colui che lo ucciderà a tradimento, capiamo chi era Jesse James: un bandito inquieto, affetto da gravi forme di paranoia; un uomo infelice e di natura malinconica; un eroe, perché riconosciuto come tale dalla gente che, alla sua morte, cominciò un lungo pellegrinaggio per vedere e toccare il cadavere del famoso bandito.

A rispecchiare gli intenti narrativi di introspezione psicologica, ci pensa una regia a tratti ispirata (belli i momenti in cui vediamo attraverso Ford come se fosse orbo perché, così diceva James, “morirò per mano di un uomo che vede attraverso un solo occhio”), ma decisamente prolissa. La staticità delle situazioni, inoltre, non aiuta alla fruibilità della pellicola che risulta appesantita da lungaggini.
Per quanto riguarda la recitazione, decisamente più convincente quella di Casey Affleck nei panni di Robert Ford che non quella di Pitt in quelli del bandito. Sarà la natura sospesa della trama che lo vuole così, sarà che l’attore americano pare non avere grandi idee su cosa dire di preciso nelle sue (poche) apparizioni sullo schermo, ma l’interpretazione generale risulta abbozzata.

"L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" è un film crepuscolare, ambizioso, forse troppo, e a cui soprattutto mancano alcuni elementi che lo rendano propriamente un western di matrice classica (sparatorie, diligenze, treni a vapore, saloon e storie di soldi).
Così com’è invece, al film di Andrew Dominik va riconosciuta la natura intimista e “autoriale” del testo, ma anche l’incapacità di renderlo davvero fruibile a tutti.

Diego Altobelli (12/2007)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1793

venerdì 14 dicembre 2007

Una moglie bellissima

Anno: 2007
Regia: Leonardo Pieraccioni
Distribuzione: Medusa

Miranda e Mariano sono due giovani sposi che sognano di aprire una frutteria nel centro del paesino toscano in cui vivono. Un giorno però, Miranda viene avvicinata da un fotografo senza scrupoli che le propone di realizzare un calendario. La bella ragazza accetta, ma a causa di ciò il suo matrimonio va in pezzi...

Con “Una moglie bellissima” Pieraccioni, come ogni anno, propone il suo nuovo film natalizio. Anche in questa occasione torna a parlare della provincia italiana usufruendo del pantheon di attori già collaudati e ben rodati (i vari Papaleo, Ceccherini, e co.). Servendosi dei soliti toni buonisti quanto provinciali, il regista fiorentino fatica zero nel confezionare il compitino come quando si tornava a scuola dopo le vacanze. Battute qua e là divertenti, altre volte più volgari, quasi sempre comunque insipide, si sovrappongono a una regia identica a quella del “Ciclone” nel consueto calderone dei luoghi comuni sui malesseri dell’Italia che fanno tanto sorridere gli amici di Pieraccioni. Questa volta, forse perché particolarmente ispirato, il regista toscano si sposta persino alle Canarie per spiegare a un gruppo di nativi del posto cose come l’indulto, ICI, o la tassa di successione. E, ovviamente, in un film che fa del buon gusto la sua carta vincente, il nativo non può che rispondere: “Ma allora il terzo mondo siete voi!”. Di tutta risposta Pieraccioni rievoca Totò con una gag in cui cerca di spiegare pure che cosa è la nebbia… Basta.
Anche quest’anno Pieraccioni farà il pieno ai botteghini e guai a parlar male di un film italiano che porta soldi. Il talento non gli si può negare e a dirla tutta di quando in quando, dal film, emerge anche. Però, che piattume.

Diego Altobelli (12/2007)

La Bussola d'Oro

Anno: 2007
Regia: Chris Weitz
Distribuzione: 01 Distribuzione

Ci sono mondi oltre il nostro, tantissimi mondi che si stagliano in innumerevoli universi paralleli. In uno di questi, molto simile alla nostra Terra, le anime vagano al fianco dei loro padroni sotto forma di animali, e vengono chiamate daimon.
Quando a Lyra, curiosando tra le gigantesche sale della sua scuola, viene affidata una bussola capace di dare risposta a qualunque domanda gli si ponga, per lei comincia un viaggio verso il Nord, alla scoperta delle origini di una strana polvere celeste che pare interessare gli insegnanti dell’istituto. Sulle tracce di Lyra si mette l'affascinante Ms. Coulter che vorrebbe per sé la Bussola d'Oro brandita dalla ragazzina...

Il libro di Philip Pullman da cui è tratto questo "La bussola d'oro", primo film di una trilogia, non era un fantasy semplice da realizzare. Non tanto per l'enorme quantità di dettagli visivi presenti nel testo, tutti realizzati in modo stupefacente dalla computer grafica, quanto per la ricchezza delle dinamiche narrative di cui il film non poteva dare conto. Nella trasposizione cinematografica del primo dei tre libri di Pullman alcuni elementi della trama vengono cioè a mancare, con il risultato, il più delle volte, di disorientare lo spettatore che invece si aspetterebbe più profondità e, forse, più ricercatezza, nella continuità narrativa.
Così com'è, il film diretto da Chris Weitz - lo stesso di "About a boy" - risulta comunque gradevole e superiore ai mediocri "Eragon" o "L'ultima legione" (anche grazie a una commistione di elementi culturali e politici che spaziano da zingari dal nome meno insinuante di "gitziani", ai "magister" e il loro esercito di cosacchi che rispondono a un ordine di tipo clericale), ma rimane lontano dalla ricercatezza visiva dei vari Harry Potter e certamente estraneo alle terre di mezzo del Signore degli anelli.

Più vicino a "La storia infinita" di Ende, che a un fantasy classico, "La Bussola d'Oro" si lascia vedere per le variegate idee sparse nella trama, prima fra tutte quella dei daimon; le belle scenografie; l'orso che diviene re (un nuovo Falkor?); la recitazione asettica della Kidman. Ma rimane la sensazione che ci sia una certa illogicità nello sviluppo nella trama. Poco male: se è vero che stanno preparando il seguito, è vero anche che nella vita non si può che migliorare, quindi…!

Diego Altobelli (12/2007)

martedì 11 dicembre 2007

Nadia e il mistero della pietra azzurra - Fushigi no umi no Nadia

Anno: 1989 - 1991
Regia: Hideaki Anno
Puntate: 39
Produzione: NHK, Gainax
Distribuzione in DVD: Yamato Video

Nel 1989 Hideaki Anno, animatore e regista giapponese di grande talento, dà alla luce la serie “Fushigi no Umi no Nadia”, aka “The secret of blue water”, aka “Nadia e il mistero della pietra azzurra”. Ispirandosi ai romanzi di Jules Verne come “Ventimila leghe sotto i mari” e “L'isola misteriosa”, Anno confeziona ben 39 episodi in cui viene narrata l'avventura di Nadia, ragazzina dal passato oscuro, e di Jean, suo inseparabile amico con la passione per le invenzioni.

Parigi, 1889. Jean, un ragazzino in procinto di provare alla Grande Esposizione la sua ultima invenzione, vede passare una ragazza in bicicletta. Il colpo di fulmine è immediato e così Jean parte al suo inseguimento. Scoprirà il suo legame a una preziosa pietra di colore turchese e con lei inizierà un viaggio che lo porterà a scoprire, a bordo del Nautilus pilotato dal capitano Nemo, il segreto di Atlandite...

Ciò che rende "Nadia e il mistero della pietra azzurra" un'opera completa sotto ogni punto di vista e una serie assolutamente da vedere, non è riassumibile in poche parole.
Bisogna necessariamente cominciare col dire che il talento visivo e narrativo Hideaki Anno, che all'epoca era reduce da due lavori del calibro di "Punta al top Gunbuster!" (miniserie fantascientifica rivoluzionaria) e "Le ali di Oneamise", più una serie di collaborazioni con il già affermato Miyazaki, esplose del tutto, anticipando temi e visioni, stili, che verranno poi ripresi nella serie di culto "Neon Genesis Evangelion". La bravura (ma il termine usato è riduttivo) del regista giapponese è tutta concentrata nel saper improvvisare visioni e intuizioni narrative atte a correggere i limiti (non solo di budget) imposti dalla casa di produzione NHK e dalla neonata casa di animazione Gainax. Elevare suddetti confini a illuminazioni che entrano di diritto nel territorio di solito calpestato dal "genio". Gli esempi si sprecano, ma due bastano forse a rendere l'idea. Il primo nell'episodio 18 vediamo per la prima volta il Nautilus approdare nel regno sommerso di Atlantide. Non c'è clamore, non c'è entusiasmo, il tutto viene raccontato, in modo asciutto e in silenzio, lasciando che le immagini parlino al posto di mille parole - un caso unico nell'animazione giapponese. Il secondo esempio può essere riconosciuto verso l'inizio della serie, quando Nadia ha i primi turbamenti sulla sua identità. I limiti della casa di produzione imposero ad Anno di tagliare suddette sequenze perché ritenute troppo seriose e non adatte a un pubblico giovane. Anno di tutta risposta le inserì comunque, ma in bianco e nero, utilizzando gli scarti delle animazioni. E così via, tutta la serie è impostata in virtù della "visone altra", cioè gioca sull'attesa di vedere e sapere cosa avviene dopo un determinato avvenimento. La guerra, l’amore, il primo bacio, l'omicidio, la scoperta, la perdita e la conoscenza: ogni cosa si muove in modo da creare clamore e meraviglia nello spettatore.

Jean e Nadia insieme alla loro combriccola di marinai, capitani, e fuorilegge, combattono un nemico, Gargoyle - il cui nome richiama l'immobilità -, di cui non conoscono le mosse e di cui sentono parlare a singhiozzi, almeno fino all'ultimo, sconvolgente, combattimento finale. Più che un nemico onnipresente, Gargoyle, dal carattere talmente furbo e malefico che si finisce per tifare per lui (bellissima la scena in cui lancia una bomba sul gruppo di eroi che vengono colpiti in pieno, e lui di tutta risposta suggerisce "...Per sicurezza, lanciamone un'altra..."), è una sorta di nemico interiore dei protagonisti che lo vedono ricomparire nella loro vita come fanno, alle volte, certi fantasmi che si tengono nell'armadio.

Arriviamo a un altro punto importante di questa serie: la caratterizzazione dei personaggi. Anno dà il meglio di sé creando un pantheon di personalità affatto scontato e mosse dalla voglia di riscatto personale. Anche in questo caso ci troviamo di fronte uno dei casi più rappresentativi nel modo di intendere l’animazione giapponese. Ecco quindi che i banditi (un trio che richiama da vicino quelli più famosi delle serie Timebokan come "Yattaman") cominciano come criminali e scoprono che devono fronteggiare qualcuno di ancor più malefico. Si alleano, si innamorano, scappano e poi ritornano per fare del bene a quei due ragazzini che inzialmente volevano perseguitare.
E poi: Nemo è un personaggio che rimarrà quasi sempre fedele a se stesso per poi rivelare verità sul suo conto da tagliare il fiato. Electra (vi ricorda niente il nome?) si troverà a dover fare i conti con le proprie frustrazioni. Gargoyle, infine, scoprirà che... e no. Mi fermo qui. Ma il tutto, davvero, è uno spettacolo per la coscienza di ognuno che in rari casi è possibile riscontrare in altre produzioni, siano queste serie televisive, animate, film o fumetti.

Alla regia eccellente della serie, fa seguito una sceneggiatura profonda, una animazione superiore agli standard dell’epoca e una musica avvolgente (il tema iniziale non si scorda più). Il tutto condito da richiami (tantissimi e labirintici) alla religione, alla letteratura, alla fantascienza d’autore (genere quest’ultimo di cui Anno è appassionato). Un'amalgama di elementi sempre perfetta con l’unico neo del “capitolo delle isole” di cui parlo di seguito. Una serie, comunque, la cui struttura narrativa, è bene ricordarlo, raggiunge livelli altissimi e difficilmente eguagliabili.

Anno commise l'errore di spendere tutto il budget che aveva per le 39 puntate, poco prima di arrivare a metà serie. Questo comportò dei tagli netti sulla produzione (Anno si ritrovò praticamente da solo) e l’affidamento momentaneo della serie a una casa minore coreana. Intorno alla puntata 24, infatti, si assiste a quello che viene definito il "capitolo delle isole". Anche in questo caso, con una animazione scarsa e una sceneggiatura mediocre Anno mette le basi per quella che sarà un finale letteralmente al cardiopalma della durata complessiva di circa sette puntate. Se nel “capitolo delle isole” assistiamo a un tracollo visivo disarmante, l'attesa è ben ripagata da un combattimento finale che non si dimentica.

Il suddetto capitolo non fu l’unica polemica a far infuriare gli appassionati della serie.
“Atlantis” della Walt Disney fece ribollire il sangue nelle vene a molti amanti di Anno che videro scippare dal colosso statunitense il soggetto originale. Le scuse non vennero mai poiché, si difesero alla Disney, il film si ispirava casomai al film di Miyazaki “Laputa”, pellicola che inizialmente doveva ispirare la serie realizzata poi da Anno.

La serie è edita da Yamato Video che ha rimasterizzato le pellicole originali, ricostruito il doppiaggio, e reinserito le parti che in televisione erano state tagliate dalle forbici benpensanti di Alessandra Valeri Manera (la stessa che censurò "E' quasi magia Johnny", "Dragonball", "Georgie", e tantissimi altri).
Inoltre la serie in DVD è arricchita da contribuiti scritti dai ragazzi Yamato che all'interno delle copertine hanno inserito tantissime curiosità sulla serie in “pre” e “post” produzione come bozzetti preparatori e aneddoti vari.

Alla serie "Nadia e il mistero della pietra azzurra" seguì anche un film, fiacco dal titolo “Il mistero di Fuzzy” e qualche videogioco di cui il più famoso è l'omonimo Rpg uscito per Megadrive, più o meno introvabile, ma all'epoca di fattura notevole.
Serie complessa, ben costruita e che ha l'onore di aver consacrato uno degli autori più importanti e visionari del nostro tempo: Hideaki Anno, che tra l'altro cadde in depressione alla chiusura della serie. Si risollevò poco più di quattro anni dopo con un altro capolavoro dell’animazione giapponese: “Neon Genesis Evangelion”.

Diego Altobelli (12/2007)

Eastern Promises - La promessa dell'assassino

Anno: 2007
Regia: David Cronenberg
Distribuione: Eagle Pictures

David Cronenberg per la prima volta si allontana dal suo Canada per raccontare un film in cui, dopo “A history of violence”, torna a dirigere Viggo Mortensen. Questo “Eastern Promises” è un thriller compatto che, rispettando tutti gli stilemi del noir, racconta con incisività il peso che hanno le scelte sulla vita dell’uomo.

Anna, una ostetrica, riesce a far partorire una ragazza incinta, ma in fin di vita. Dopo la morte della giovane, per scoprire le origini del piccolo orfano e capire a chi darlo in affidamento, Anna comincia a fare delle indagini partendo da un diario segreto scritto in lingua russa. Scoprirà legami con la mafia...

In “Eastern Promises” il dramma non è mai urlato, i personaggi si muovono lenti, insicuri, e profondamente fragili, nello scenario che il destino ha tracciato per loro.La pellicola è costruita intorno a tre elementi. Abbiamo la bravissima Naomi Watts, l’ostetrica Anna idealista e impulsiva, che tenta di salvare la vita al piccolo motivata dal non essere riuscita a “salvare” il bambino che invece portava dentro di sé. E c’è Kiril, il figlio del boss, un intenso e commovente Vincent Cassel, che deve accettare le leggi che la malavita gli impone pur andando contro quelli che sarebbero i suoi veri ideali: amicizia, onore e rispetto.
In mezzo ai due troviamo un grande Viggo Mortensen, che tenta di assumersi il ruolo di ponte, ideale ed esistenziale, tra la vita di Anna e quella di Kiril. Il film, rispettando sapientemente i ritmi, i respiri e le atmosfere del genere noir, ci suggerisce che questa unione tra i due mondi è ancora possibile. Proprio lì dove, pare, non possa più esserci spazio per la misericordia.

Cronenberg, da sempre attento scrutatore del corpo per ricercarne all’interno la vera essenza dell’uomo, in questo “Eastern Promises” indugia con partecipazione registica sulle ferite del corpo, spesso avvenute da armi da taglio, e sul suono che queste lacerazioni provocano al contatto con la materia organica. Splendida a questo proposito, la scena “clue” del film in cui vediamo Viggo Mortensen combattere nudo in un bagno turco contro due mafiosi. Diretta con lucida emotività, la sequenza è una delle migliori scene d’azione degli ultimi anni per la capacità che ha di trasmettere il senso di violenza, sofferenza e resistenza di cui è capace il corpo umano. Da vedere.
Inoltre Cronenberg fa di più. Là dove non arriva con il “gore”, il regista canadese giunge con i ricordi, raccontati dai numerosi tatuaggi dei protagonisti.
L’atto del tatuare è già sinonimo di violenza - inteso come atto non previsto in Natura - che l’Uomo infligge al proprio corpo. Qui l’autolesionismo si spiega come unico modo di trattenere la memoria delle proprie scelte. Il “ricordo”, infatti, di per sé è estraneo all’Uomo che in Natura è nudo e puro nel corpo come nella mente. Il tatuaggio diviene quindi l’allegoria dei segni indelebili che il “vivere” lascia nell’individuo. Solchi talmente profondi da non consentire, in ultima analisi, possibilità di tornare indietro e riacquisire la vera, originale, essenza umana.

Film complesso, teso, e sostanzialmente bellissimo. Dopo l’ottimo “A history of violence” Cronenberg firma un altro avvincente, ma non facile, film sull’incapacità di operare univocamente sulla propria vita e su quella degli altri. Profondo.

Diego Altobelli (12/2007)
estratto da http://filmup.leonardo.it/easternpromises.htm

venerdì 7 dicembre 2007

L'età barbarica

Anno: 2007
Regia: Denys Arcand
Distribuzione: Bim

Jean-Marc è un impiegato statale che sta attraversando una fase molto difficile della sua vita. La moglie infatti, lo ha appena lasciato abbandonandolo con le figlie. Per Jean-Marc non rimane altra scelta che rifugiarsi nella fantasia...

A quattro anni dalle "Invasioni barbariche" Denys Arcand torna a parlare della sua terra d’origine, mettendo in luce tutte le idiosincrasie, le insicurezze, e le contraddizioni del popolo canadese. "L'età barbarica" del titolo Arcand la rintraccia nella chiusura mentale e nell'incomunicabilità che caratterizzano i nostri tempi. Il protagonista, un uomo qualunque di nome Jean-Marc, inizialmente cerca di fuggire dal "medioevo" che lo circonda, attraverso fantasticherie e visioni al limite del grottesco (belle donne da sodomizzare, tornei tra cavalieri, galere in partenza verso il mare aperto, ecc.); poi, trovando rifugio in un vecchio cottage che apparteneva al padre, l’uomo finisce per accettare il suo tempo e le follie che lo caratterizzano, senza tentare di esorcizzarle con immaginazioni ancor più folli.

La regia di Denys Arcand colpisce ancora. Il suo ritmo pacato, ma pungente e la regia garbata eppure malinconica, attraggono lo spettatore avvolgendolo e strappandogli, di quando in quando, qualche sorriso accondiscendente. Pur non raggiungendo l’intensità del precedente capitolo, “L’età barbarica” coinvolge e sa lasciare nel pubblico una sottile nota malinconica. Una pellicola elegante e intelligente che conferma il talento del regista.

Diego Altobelli (12/2007)

Paranoid Park

Anno: 2007
Regia: Gus Van Sant
Distribuzione: Lucky Red

Dopo “The last days” e, soprattutto, “Elephant”, Gus Van Sant torna dietro la cinepresa a dirigere un film che descrive ancora una volta l'inquietudine e l'apatia dell'essere adolescenti.

Alex è un giovane appassionato di skateboard. Una notte, scappando da una guardia che vorrebbe trattenerlo, il giovane spinge accidentalmente l’uomo su un binario uccidendolo. Superato lo smarrimento iniziale, Alex decide di non raccontare nulla dell'accaduto…

Per "Paranoid Park" Gus Van Sant fa ciò che gli riesce meglio: fotografare la quotidianità dei giovani di oggi.
Apatia, inquietudine, delusione, noia, sono tutti sentimenti che con mano lucida Van Sant riesce a far emergere, a portare alla luce con estrema nitidezza registica. Inoltre, senza mai lasciarsi andare alla tentazione (voglia?) di esprimere un giudizio su quanto accade sullo schermo, il regista statunitense tratteggia una vicenda che ricorda molto da vicino, pur con le dovute distinzioni del caso, quella narrata in "Elephant".
Purtroppo però, pur essendo Gus Van Sant regista poliedrico che ci ha abituato a film di vario spessore e genere, con questo “Paranoid Park” non riesce a toccare le corde più intime e profonde dello spettatore. Alla noia generale di un soggetto che non spicca mai il volo, Van Sant rimedia alternando immagini in 35mm (usate per raccontare la vicenda), a quelle girate in super8 (utilizzate per mostrare le evoluzioni di alcuni ragazzi con il loro skate).
Andare sullo skateboard su e giù per le varie rampe diventa quindi per il regista la giusta allegoria dell’inquietudine, dell’apatia, e della frustrazione di un ragazzo qualunque.

L’abulica regia è però ben sostenuta dalla musica, che spazia nei temi di accompagnamento proponendo anche brani diretti dall’italiano Carlo Savina tratti da “Amarcord” e “Giulietta degli spiriti”. Rimane impressa, a tal proposito, la scena che vede Alex lasciare la giovane Jennifer: l’idea di non sentire le parole di rabbia della ragazza e di sostituirle con la musica di Savina risulta molto ispirata.

Tirando le somme “Paranoid Park” è un film che ha dalla sua armi come la buona tecnica registica (intima come una fotografia), e il buon montaggio (musica e immagini si sposano perfettamente). Purtroppo però il film mira in alto e malgrado l’esperienza e la tecnica che lo hanno realizzato, alla fine ci si chiede se tutte quelle evoluzioni con lo skateboard e quei continui primi piani non siano stati inseriti furbescamente al fine di sopperire alla mancanza di idee e allungare un brodo già visto.

Diego Altobelli (12/2007)

Hitman - L'assassino

Anno: 2007
Regia: Xavier Genz
Distribuzione: 20th Century Fox

Ispirata all'omonima serie di videogame, sbarca nelle sale, “Hitman – L’assassino”, film di spionaggio diretto da Xavier Gens.

L'Agente 47 è un killer a pagamento al soldo del governo russo per far piazza pulita di vari personaggi scomodi appartenenti alla politica. Quando però gli viene dato l'incarico di uccidere un capo di stato dell'Europa dell'Est, l'agente 47 scopre che in realtà si tratta di una trappola tesa dalla sua organizzazione per toglierlo di mezzo...

Trama confusa al servizio di una regia conforme alla mediocrità generale. Timothy Olyphant, già visto nell'ultimo capitolo di “Die Hard”, veste i panni di questo killer a pagamento che non offre nulla di nuovo al pubblico. Luoghi comuni e frasi che vorrebbero essere “a effetto” senza riuscirci, modellano un soggetto particolarmente confuso e povero di idee. Intorno a lui un delirio di “genere” poco appagante. Al fianco dell'Agente 47, infatti, troviamo la classica prostituta bisognosa di affetto e dal passato tragico; dietro di lui l’organizzazione che gli dà la caccia per motivi non chiaramente esplicitati; davanti a lui la CIA, l'Interpol e tutto il “cucuzzaro” delle varie organizzazioni governative... Nel caos in cui si muove il protagonista non troppo convinto, di chiaro non c'è nemmeno l'ambientazione. Europa dell'Est? No, è la Francia, forse Parigi. O il Belgio, forse Bruxelles. Si vede un albergo, poi una fabbrica, poi ancora un casinò. Troppo disordine nelle idee al servizio di una recitazione da "minimo sindacale" e un'assenza generale di “appeal” davvero sconfortante.

Insomma, "Hitman - L'assassino" è un prodotto che, se avesse sfruttato le buone idee che vi erano nel videogioco da cui è tratto poteva ambire a divenire una pellicola intensa come sono, a volte, certi film di genere. Così com'è, invece, risulta debole e apatico, come sono, alle volte, certi videogiochi...

Diego Altobelli (12/2007)

martedì 4 dicembre 2007

Vip - Mio fratello superuomo

Anno: 1968
Regia: Bruno Bozzetto

Bruno Bozzetto viene considerato come un “cugino maledetto” di Walt Disney. Quello dimenticato, quello che si vuole nascondere o perché conosce verità scomode, o perché conosce il modo per comunicarle.
Come a dire: se Walt Disney avesse avuto in famiglia un parente dal carattere difficile, probabilmente sarebbe stato Bruno Bozzetto. A riprova di ciò, nel 1968 l'artista milanese ci regala "Vip- Mio fratello superuomo", un film che già dal titolo promette di smontare tutti i punti cardinali su cui si poggiano le serie super-eroistiche dei comics americani, lanciando al contempo una critica feroce al sistema televisivo e al malcostume italiano.

SuperVip e MiniVip sono gli ultimi due discendenti di una stirpe di superuomini. Il primo è alto, atletico, e incarna tutte le caratteristiche di un giovane Superman; il secondo invece è di bassa statura, impacciato, profondamente insicuro e timido. In seguito a un viaggio in crociera organizzato da Supervip per aiutare il fratello minore a recuperare un po’ di autostima, MiniVip entra in contatto con una organizzazione criminale guidata dalla diabolica Happy Betty e da un dottore matto - "made in Germany"(!). Toccherà ai due superuomini combattere l'organizzazione e salvare l'umanità da un futuro dedito al consumismo...

Trama forzatamente rocambolesca al servizio di una satira pungente indirizzata alla politica, alla società, e alla televisione del bel Paese. Ciò che colpisce oggi di "Vip - Mio fratello superuomo" è l'attualità dei temi trattati. Il maestro Bruno Bozzetto disegna e dirige magistralmente un film che per l'epoca presentava standard qualitativi notevoli (dimostrabile nella fluidità delle animazioni), pur rimanendo fedele al tratto essenziale che lo ha reso famoso e usufruendo di una regia affatto scontata e sempre funzionale all'azione. Vere e proprie intuizioni e rimandi colti e non (si noti il leone simile a quello codardo incontrato a Oz, che poi si rivela essere una fanciulla bellissima), si susseguono in un viaggio a metà strada tra l'immaginario di Bozzetto e la società di quegli anni. Dai supereroi fino ai vari "James Bond", passando persino per i televisivi "Lascia o raddoppia?". Impossibile poi non riflettere davanti al castello di Happy Betty, la strega cattiva che si muove su un trono cingolato: la sua dimora è una specie di fabbrica psichedelica - come quella di un futuro "Willy Wonka” – dove si creano esseri girando una specie di ruota della fortuna. Immaginifico.

Nel 1968, quindi, Bruno Bozzetto sforna un altro personaggio destinato a entrare nell'immaginario comune italiano. Dopo il mitico “Signor Rossi” e il lungometraggio "West and Soda" ecco arrivare "Vip - Mio fratello superuomo", un film che incarna tutto l'immaginario di Bozzetto (fatto di battute, frecciate, e di rarefatta malinconia), ponendolo su un piano super-eroistico. Un film che è la visione di un mondo votato al consumismo sfrenato e all'apparire. Bozzetto lo aveva capito nel 1968, e ce lo aveva pure mostrato. C'è gente che ancora adesso, invece, non ha capito niente.

Se Walt Disney avesse avuto un fratello bastardo, dicevamo, sarebbe stato Bruno Bozzetto. Il suo tratto essenziale, difficile, modesto, l'animazione fluida, ma troppo rapida, le sue storie più vere di quanto non vogliano essere, tutto si contrappone all'immaginario disneyano della perfezione. Bozzetto la trova su un’isola, ma da quella scappa, salvando l'umanità...

Diego Altobelli (12/2007)

lunedì 3 dicembre 2007

Winx Club - Il segreto di un Regno Perduto

Anno: 2007
Regia: Iginio Straffi
Distribuzione: 01 Distribuzione

Le Winx nascono dalla mente di Iginio Straffi e le sue storie sono diventate da subito le più l;ette in Europa. Un caso editoriale senza precedenti che ha visto il susseguirsi di serie animate e lungometraggi. L’ultimo nato è proprio “Winx Club – Il segreto di un Regno Perduto”, un film che poteva essere un gran colpo per l’animazione italiana, ma che invece ci ricorda come siamo ancora indietro su questo campo rispetto al resto del Mondo.

Sedici anni fa i maghi guerrieri hanno affrontato il Male Assoluto nel regno di Domino. Oggi il “Regno Perduto” è di nuovo in pericolo, spetterà alle Winx, un gruppo di fate con poteri magici, combattere le bestie Incubo e scovare l’ultimo Re di quel regno…

A onor del vero “Winx Club – Il segreto di un Regno Perduto” ha il pregio di essere il primo film di animazione in Italia completamente realizzato in Computer Grafica. Tanto dispendio di energie al servizio di una favola per ragazzine che vedono nelle varie Paris Hilton della televisione l’unico punto di riferimento. Le Winx si muovono volgari, ammiccando qua e là qualche sguardo provocante e sculettando con le loro belle alette, mantenendo al contempo uno standard qualitativo di molto inferiore ai concorrenti stranieri. Doppiaggio fuori sincrono, animazioni scialbe, trama prevedibile e indietro di circa venti anni sul resto del Mondo, e una voce fuori campo che con la narrazione cerca di ovviare all’incapacità dei realizzatori di riprodurre ciò che viene raccontato in soli 75 minuti di girato. Un tonfo.

Insomma “Winx Club – Il segreto del Regno Perduto” è un film che lancia l’Italia nel mondo del 3D. Speriamo in futuro con risultati migliori.

Diego Altobelli (11/2007)

Diario di una tata

Anno: 2007
Regia: Shari Springer Berman, Robert Pulcini
Distribuzione: 01 Distribuzione

La bella Annie sta passando un periodo un po’ difficile della propria vita: entrare al college o prendersi un anno sabbatico? La scelta ricade sulla seconda opzione e così accetta di lavorare come tata presso una famiglia altolocata newyorchese. Lì fa la conoscenza del piccolo Grayer, ragazzino difficile che però gli insegnerà a vivere la propria vita in modo più coscienzioso…

Rivisitazione in chiave moderna di “Mary Poppins”, senza la magia “disneyiana” ma con lo stesso ombrello volante che, all’insaputa dei protagonisti, continua a volteggiare nei medesimi cieli di New York. Scarlett Johansson veste i panni di una tata pasticciona e senza la benché minima idea di cosa fare per prendersi cura di un ragazzino di appena sei anni, ma con tanto impegno e un pizzico di buon senso riuscirà a sostituirsi perfino ai genitori del piccolo.Pellicola gradevole dove la critica sociale è in agguato a ogni fotogramma: genitori troppo presi da se stessi per accorgersi di quanto il loro figlio abbia bisogno della loro attenzione, si contrappongono a una giovane studentessa senza prospettive nel futuro se non quella di mettere per iscritto le sue esperienze come tata. Fortunatamente il film si rivela sufficientemente intelligente e garbato per non risultare retorico e pretestuoso. Una regia a quattro mani firmata dal duo Berman- Pulcini mantiene la pellicola su standard qualitativi modesti, sia per ritmo che per trama, sostenuta, semmai, dall’ottimo cast di attori: Paul Giamatti e la splendida Scarlett Johansson spiccano comunque su tutti.

Con una sceneggiatura dal retrogusto nostalgico, che richiama spesso a vecchie favole, “Diario di una tata” si dipana timidamente verso un finale aperto. Un film che non convince del tutto, ma che si lascia comunque apprezzare.

Diego Altobelli (11/2007)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1776

mercoledì 28 novembre 2007

The descent - Discesa nelle tenebre

Anno: 2005
Regia: Neal Marshall
Distribuzione: Time Code

Sarah ha subito un grave trauma psicologico quando ha assistito impotente alla morte improvvisa del marito e della figlia. Da quel triste episodio è trascorso un anno. Per farle superare il trauma e incoraggiarla a ricominciare a vivere, sua sorella Beth le propone di unirsi alle amiche di sempre per una piccola spedizione speleologica. Timidamente la ragazza accetta, ma una volta addentratasi nel buio delle caverne, la sua escursione si trasforma in un incubo…

L'inglese Neal Marshall, che col suo primo lungometraggio “Dog Soldier” si è guadagnato la fama di regista di culto, dirige “The descent – Discesa nelle tenebre”, titolo altisonante per un film horror tra i migliori degli ultimi anni.
Una sfida avvincente quella vinta dal regista, anche grazie all’abile lavoro dello scenografo Simon Bowles, efficace nel ricostruire negli studi di Pinewood, una grotta fatta di antri oscuri, cunicoli claustrofobici e ampi saloni rocciosi. La regia di Marshall segue le vicende di Sarah e le sue compagne con uno stile lucido ed efficace mentre la sceneggiatura asseconda una vicenda letteralmente al “limite”: la semplice passione per gli sport estremi non pare essere una motivazione sufficiente da giustificare la scelta delle ragazze di avventurarsi in una grotta sconosciuta, ma in “The descent” un tale difetto narrativo mina solo in parte la riuscita di un film che, nel suo genere, sfiora la perfezione.

Sempre teso e avvincente “The descent” trascina le sue protagoniste, e con esse gli spettatori, in un autentico viaggio all’inferno dantesco, dove l’unica meta possibile è la perdita totale di umanità. Perfettamente a metà strada tra “Predator” e “Alien”, “The descent- Discesa nelle tenebre” è un gioiello del cinema horror, un genere in cui si ricomincia, finalmente, a respirare aria nuova.

Diego Altobelli (10/2005)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1382

martedì 27 novembre 2007

Pulse

Anno: 2006
Regia: Jim Sonzero
Distribuzione: Eagle Pictures

Ispirato a una pellicola horror giapponese del 2001 dal titolo emblematico di "Kairo", "Pulse" è il primo film di Jim Sonzero, regista dalla palese impostazione televisiva. Cavalcando l'onda modaiola che vede arrivare sul grande schermo cantanti e idol dello Star Sistem di quell'America che vede MTV, anche "Pulse" può fregiarsi della prestante presenza di una cantante famosa tra gli adolescenti: Cristina Millian, qui alla sua prima apparizione.

Una misteriosa serie di suicidi sembra affliggere il Mondo. Dapprima l'opinione pubblica pensa si tratti di semplici coincidenze o casualità, e non dà il giusto richiamo al problema, ma ben presto la gente, ritrovatasi decimata nel giro di poche settimane, si accorge che qualcosa di molto più profondo è in atto: una forza misteriosa e implacabile mira all'estinzione della razza umana. Una giovane ragazza universitaria è tra le prime a rendersene conto e, indagando sul suicidio del suo ex fidanzato, scopre che un misterioso virus tecnologico risucchia la "voglia di vivere" delle persone collegate a un qualunque computer. Mettersi in salvo da tale sciagura non sarà facile...

Spunti apocalittici al servizio di una sceneggiatura povera e poco ispirata. In "Pulse" quel poco che c'è di buono viene annebbiato totalmente da dialoghi che sembrano scritti affrettatamente e, comunque, decisamente poco ispirati. Una buona fotografia, che in ogni caso rimane sugli standard da videoclip, e uno spunto interessante, suggerito prima ancora che da "Kairo" da un famoso anime giapponese dal titolo "Serial Experiment Lain", non bastano affatto a salvare una pellicola confusa che a tratti sfiora il ridicolo. La regia dal canto suo non offre davvero nulla di nuovo al genere horror: lunghe attese, silenzi prima di urla, inquadrature frontali, un lavoro che può essere considerato un summa, un riepilogo, di tutto ciò che già è stato fatto e visto.

Se il film offre poco dal punto di vista delle idee, lasciando quelle poche che ci sono in sospeso, anche la recitazione non può essere considerata a un livello sufficientemente accettabile. Gli attori e le attrici non appaiono affatto interessati alla vicenda, recitando in modo accademico e, a tratti, distaccato. Finzione nella finzione.
Unica curiosità è la presenza di Ian Sommerhalder, idolo delle teenager e protagonista nei panni di Bun nella serie "Lost": un attore che, bella presenza a parte, promette di crescere molto.

"Pulse" delude le aspettative: povero di tecnica, di trama, e di pathos narrativo. Un film debole (a differenza dell'originale da cui trae ispirazione), come l'idea di un virus che uccide tramite un cellulare.

Diego Altobelli (09/2006)
estratto da http://filmup.leonardo.it/pulse.htm

The ring 2

Anno: 2005
Regia: Hideo Nakata
Distribuzione: UIP

Dall'originale Ringu sono passati sette anni e ormai è storia: la pellicola giapponese è diventata oggetto di culto in tutto il mondo. Ringu ha affascinato grazie all'innovativa trama incentrata su un videotape la cui maledizione uccideva chiunque lo guardasse, ma non solo. Ringu, introducendo l'elemento para-psicologico nella trama, ha imposto il modo di intendere la paura orientale nelle menti di tutto il pubblico occidentale, aprendo così il mercato a molti film asiatici che hanno potuto godere di una distribuzione più coraggiosa e, a volte, di interessanti rifacimenti.

Oggi Hideo Nakata si prepara a presentare al grande pubblico il seguito di The Ring, in una tendenza inaugurata con un altro film, The Grudge, che vede gli stessi registi degli originali prendere le redini nelle trasposizioni d'oltreoceano.

Sono trascorsi sei mesi dagli eventi drammatici che hanno sconvolto la vita di Rachel Keller e di suo figlio Aidan. I due hanno lasciato Seattle per cercare tranquillità nell'Oregon a Astorian, una piccola comunità sul mare. Qui credevano che il ricordo di Samara e della sua triste storia legata alla video cassetta maledetta non li avrebbe raggiunti. Invece in paese accadono misteriosi omicidi e il ritrovamento di un curioso videotape sul luogo dei delitti non lascia alcun dubbio a Rachel: Samara è tornata, decisa a portare a termine il suo diabolico piano di morte.

Il talento di Hideo Nakata è innegabile: la regia di The Ring 2 è nitida, anche se quasi scontata nella forma, e trasmette un senso di palpabile inquietudine a tutta la visione. La trama, di contro, è priva di vera ispirazione: l'originale modello narrativo del cerchio infinito di visione e morte infatti, non basta più ad una storia che, oggi, risulta troppo legata ad un'idea, e a una tecnologia, superata. Insomma, malgrado il realismo e la professionalità delle recitazioni, soprattutto quella del monumento Sissy Spacek, il film purtroppo è debole. Un soggetto che, dopo numerosi seguiti, rifacimenti, trasposizioni fumettistiche e televisive, comincia ad accusare un po' di stanchezza.

Diego Altobelli (2005)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1265

Th Grudge

Anno: 2004
Regia: Takashi Shimizu
Distribuzione: 01 Distribuzione

L'americana Karen, una giovane studentessa universitaria, si trova in Giappone per uno scambio culturale. Una mattina le viene offerto di sostituire un'infermiera che presta servizio domiciliare ad un'anziana signora, Emma, ridotta a vivere in uno stato catatonico. La ragazza finisce per accettare senza troppi problemi. All'interno della villa però regna un inspiegabile disordine e strani rumori sembrano provenire dalla soffitta... Karen scoprirà presto che in quella casa si nascondono terrificanti presenze ultraterrene.

The grudge nasce nella terra del Sol Levante da una serie di film intitolati Ju-on e girati dallo stesso regista Takashi Shimizu. Contattato da Sam Raimi, il regista giapponese ha accettato di girare questo remake per l'America, ambientandolo nella sua patria, negli stessi luoghi e con i personaggi che avevano caratterizzato gli altri due film. L'operazione commerciale, che segue una moda iniziata con The ring, è insolita, ma funziona: il film diviene uno strano mix tra un mero remake, con un paio di scene riprese quasi identiche dagli originali, e un nuovo episodio della serie, riuscendo a spiegare alcuni particolari narrativi che venivano lasciati volontariamente irrisolti nei precedenti due capitoli. Chi ha visto i vari Ju-on potrebbe notare questa particolare crisi d'identità da parte del film, una sensazione che però non mina in modo sostanziale la visione dello spettacolo.

The grudge cela un'incredibile suggestione visiva. Shimizu possiede la capacità innata di fotografare la paura, di fermarla, di rallentarla come fosse un respiro soffocato. Con un ritmo quasi estenuante le sue immagini divengono visioni collettive di paure presenti nell'animo umano: il buio, la scoperta, la solitudine, tutto viene trasformato visivamente in Cinema. Un cinema fatto di allusioni, o illusioni, di miraggi, un cinema che indaga all'interno dell'immagine stessa cercando particolari che sembra mostrare e poi nasconde, in attesa di essere scoperti nuovamente. La paura diviene dunque questa: sapere che vi è qualcosa che non si ha voglia di vedere, di riconoscere. Poi il sonoro: distorto, alieno, disturbante, quasi ossessivo nella sua parte psicologica/narrativa. Questo dualismo, questo sapiente utilizzo di sonoro e immagine rende The grudge un film eccellente, un nuovo punto di riferimento del genere, senza mezzi termini.

Diego Altobelli (11/2004)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1064

Genere - Horror

28 settimane dopo (2007)
30 giorni di buio (2008)
Alta tensione (2005)
Boogeyman 2 (2008)
Chiamata senza risposta (2008)
Drive Angry (2011)
Grotesque (Gurotesuku) (2009)
Hostel - part II (2007)
Il mai nato (2009)
Joshua (2008)
L'ultimo esorcismo (2010)
La Horde (2010)
La maschera di cera - House of wax (2005)
La setta delle tenebre (2008)
Lake Mungo (2008)
Let me in (2010)
Nightmare detective (2006)
Paura - 3D (2012)
Pulse (2006)
Rec (2008)
Rec 2 (2009)
Ruins - Rovine (2008)
Saw - L'enigmista (2004)
Saw IV (2008)
The descent - Discesa nelle tenebre (2005)
The Grudge (2004)
The Poughkeepsie tapes (2007)
The ring 2 (2005)

Nightmare detective - Akumu tantei

Anno: 2006
Regia: Shinya Tsukamoto
Distribuzione: Minerva Pictures

Affresco visionario a metà strada tra "Nigthmare- Dal profondo della notte" di Wes Craven e il "Tetsuo" del regista Shinya Tsukamoto, lo stesso autore di questo "Akumu Tantei - Nightmare detective". Proseguendo il tema dell'"urbanizzazione nell'uomo" cominciato con "Snake of June" e approfondito nel film premio Orso d'Argento al Fantasy Film Festival di Berlino nel 2005 "Vital", Tsukamoto fonde la realtà della Tokyo di oggi con la paura della morte, qui vista attraverso il suicidio e come liberazione della sofferenza umana.

Keiko Kirishima è un'abile poliziotta appena trasferitasi nel reparto investigativo della polizia di Tokyo. Purtroppo il primo caso non è dei migliori: due casi di suicidio legati tra loro da un'ultima telefonata fatta dalle vittime allo stesso numero di telefono registrato con la lettera "O". Keiko e il suo collega Wakamiya decidono di chiedere aiuto a un medium, e contattano così Kyolchi, conosciuto anche come "Nightmare detective" per la sua capacità di entrare nei sogni delle persone in procinto di morire. Quando anche Wakamiya muore in seguito alla telefonata fatta, per Keiko comincia un suo personalissimo incubo, che la porterà faccia a faccia con l'assassino...

Troppo facile relegare il film di Tsukamoto tra i B-movie presenti nel panorama degli horror nipponici. "Akumu tantei" cerca di penetrare più a fondo nelle conoscenza dello spettatore indagando negli incubi dei suoi personaggi e in quelli della società moderna, troppo distratta nel traffico della vita di tutti i giorni per accorgersi dell'intima sofferenza del singolo individuo. Nella pellicola di Tsukamoto c'è la violenza, quella cruda e "pasticciata" vista in "Tetsuo", ma anche la solitudine, del tutto metropolitana, di "Snake of June", e in questi elementi tenta di trovare una via d'uscita, proprio come si cerca un'uscita da un incubo. Una regia realizzata utilizzando una telecamera a mano e non una vera camera cinematografica, unita a una fotografia per lo più monocromatica, che alterna colori caldi e freddi con giusta misura semantica, nell'ambito della scena in cui si inserisce, rende il film un interessante esperimento onirico. Purtroppo, se la regia è degna di nota, la sceneggiatura, e più in generale la trama stessa, non convince troppo perdendo per strada un ottimo spunto "fumettistico" nel vorticare confuso di omicidi e sogni. E' così che un bel trhiller d'autore diventa, in buona sostanza, l'auto celebrazione di un artista visionario.

Davvero efficace la colonna sonora: pregna di pezzi angoscianti dalle influenze punk-rock. Musica che aiuta non poco ad entrare nello spirito del film. Da ascoltare.

Un B-movie, ma d'autore. In "Akumu tantei" ci sono tutti gli elementi che hanno reso celebre il regista giapponese Shinya Tsukamoto: violenza, angoscia, solitudine, frenesia, sesso e metropoli, il tutto unito dal collante onirico della trama. Un film che potrebbe diventare "di culto" per gli amanti del cinema giapponese, ma che si perde, a livello narrativo, nello stesso sogno del regista.

Diego Altobelli (10/2006)
estratto da http://filmup.leonardo.it/nightmaredetective.htm

Milano-Palermo: il ritorno

Anno: 2007
Regia: Claudio Fragasso
Distribuzione: Buena Vista

Claudio Fragasso torna dietro la cinepresa con il seguito di "Palermo-Milano: solo andata". Questa volta, la stessa scorta che aveva accompagnato Leofonte, il ragioniere della mafia, in carcere, dovrà scortarlo in Sicilia, dove potrà ricominciare una nuova vita. Ma sulle sue tracce c'è Rocco Scalia, figlio del boss defunto, pronto a tutto per ripagare il torto subito. Il viaggio "di ritorno", sarà lungo e faticoso...

...Purtroppo anche per il pubblico. Per "Milano-Palermo: il ritorno" Claudio Fragasso sceglie lo stesso cast televisivo del precedente episodio, annichilendolo, semmai, con facce nuove provenienti dalla fiction come Simone Corrente e Gabriella Pession. Contando su un soggetto fracassone all'insegna di sparatorie e frasi urlate, Fragasso confeziona un lungo episodio di "Distretto di Polizia" riprendendo i suoi stessi tempi e stili narrativi. Purtroppo, al bravo Fragasso, bisogna ricordare che non basta dare a un manipolo di uomini una pistola e ordinargli di sparare alla rinfusa davanti la telecamera per realizzare un film di genere. Bisogna poter contare anche su un buon soggetto, magari privo di buchi di trama, su una sceneggiatura non banale e, semmai, su attori un poco più partecipi a ciò che succede sullo schermo.

Ecco quindi "Milano-Palermo: il ritorno": un film corrotto dagli echi delle fiction, dei reality, e dei tele-dipendenti. In Italia si fa sempre più fatica a produrre Cinema, investendo sulla Fiction televisiva che rischia di corrompere tutto, anche le buone idee. E infatti il film di Fragasso mirava ambiziosamente a rilanciare "il cinema di genere in Italia" (citando le parole dello stesso regista), ma fallisce miseramente in un mare di confusione e nella totale assenza di metodo.
Il Cinema non è la televisione. E per realizzare un buon film (genere o non genere) bisogna saper fare Cinema, utilizzando i suoi metodi e sfruttando i suoi tempi: “Milano Palermo: il ritorno”, quantomeno, riesce a ricordarci questo.

Diego Altobelli (11/2007)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1775

Factory girl

Anno: 2007
Regia: George Hickenlooper
Distribuzione: Moviemax

Personaggio sfruttato, icona della pop art, musa ispiratrice, ragazza sfortunata. In questi e in molti altri modi si può definire il personaggio di Edie Sedgwick, una fanciulla tanto bella da divenire l’amore segreto di Andy Warhol. E fu proprio lui, infatti, a scoprirla e a farne un personaggio di successo degli anni Sessanta. Purtroppo la giovane e ingenua Edie, non immaginava che come lui l’aveva fatta diventare una stella, lui poteva anche distruggerla…

Pellicola che ha suscitato moltissime polemiche e la cui uscita nelle sale è stata più volte messa a rischio dalle minacce di denuncia da parte dei personaggi presi in causa. Bob Dylan, ad esempio, ha minacciato a più riprese di denunciare tutto il cast se il film fosse stato distribuito nei cinema.
Ma “Factory girl”, malgrado le denuncie e le polemiche, si rivela essere un bel film biografico. Drammatico, semmai spietato in una narrazione che tende a stereotipare un po’ troppo i personaggi rappresentati, ma molto curato, sia per la ricostruzione dei fatti e delle ambientazioni, sia per la regia. Quest’ultima, affidata a George Hickenlooper, viene caratterizzata da immagini sporche, rigate, graffiate, come se ci fosse la volontà di richiamare le pellicole underground girate da Andy Warhol come “Vinil”, in cui prendeva parte proprio la giovane e bellissima Edie Sedwick. A vestire i panni della protagonista incontriamo Sienna Miller: interpretazione intensa la sua, che non raggiunge l’autenticità espressa dal volto della Sedwick (irraggiungibile), ma che riesce comunque a risultare credibile e appassionante. Nel difficile ruolo di Andy Warhol troviamo invece Guy Pierce, la cui parte impressiona per la cattiveria con cui segna ogni atteggiamento dell’artista “Re” della Pop Art. Diabolico, infelice, contraddittorio e anaffettivo: il suo Andy Warhol è un vero concentrato di malvagità.

Contando su un cast di bravi attori, quindi, e una storia intrigante “Factory Girl” è un film ben girato, intenso e che racconta (onestamente) un episodio scomodo della Pop Art: “un’altra faccia” della cultura della bellezza e delle icone. Forse stereotipa un po’ troppo i personaggi, rendendoli didascalici, ma la sceneggiatura regge e il film coinvolge.
Di Hayden Christensen, l’attore che interpreta un musicista in tutto e per tutto somigliante a Bob Dylan, non parliamo. Non tanto per l’interpretazione in sé, onesta e nulla più, quanto per non correre il rischio di imbattersi in denuncie da parte di terzi… Con questi artisti, non si sa mai!

Diego Altobelli (11/2007)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=1774

Fred Claus - Un fratello sotto l'albero

Anno: 2007
Regia: David Dobkin
Distribuzione: Warner Bros.

Alle volte avere un fratello può essere una cosa antipatica. E’ il caso di Fred Claus, fratello maggiore del più famoso Nicholas, conosciuto anche come Babbo Natale o Santa Claus. I due non si parlano più da anni, ma quando a Fred servono cinquanta mila dollari per aprire una sala giochi davanti Wall Strett, l’unica persona a cui può chiedere aiuto è proprio suo fratello Nicholas. Quest’ultimo accetta, ma ad una sola condizione: che nel prossimo Natale lo aiuterà a preparare i doni per i bambini...

Dopo lo scoppiettante “Due single a nozze” David Dobkin torna dietro la cinepresa per cimentarsi con le questioni natalizie. E lo fa proponendo un soggetto affatto scontato, arricchito semmai da attori bravissimi come Vince Vaughn, Paul Giamatti, Kathy Bates, e Kevin Spacey. Anche se un pò sfilacciato sul piano della continuità narrativa, "Fred Claus" propone idee spassose e sketch irriverenti. Su tutti spiccano due momenti: il primo in cui Fred si reca al consultorio per fratelli bistrattati, trovandosi a consolare le “versioni povere” di Sly Stallone, Bill Clinton e William Baldwin (quello vero!); e il secondo in cui Kevin Spacey (già Lex Luthor nel blockbuster “Superman”) rivela a Santa Claus di aver sempre desiderato un mantello rosso come quello del supereroe dei fumetti. Insomma, malgrado si abbia la sensazione di aver di fronte un film che non riesce ad amalgamare bene l’impasto narrativo, un pò troppo lungo e a tratti fracassone, “Fred Claus” convince, intriso com’è di comicità surreale.

Degli attori abbiamo già accennato, ma due nomi meritano un trattamento speciale: Kevin Spacey, la cui interpretazione, oltre a confermare il talento di un attore completo, dona alla pellicola una sferzata intrigante; e Paul Giamatti (presente anche in “Il diario di una tata” di prossima uscita), attore che negli ultimi anni è andato comparendo sempre di più confermando di volta in volta le sue qualità attoriali. Entrambi, comunque, straordinariamente versatili, convincenti, e mai stancanti.

Diego Altobelli (11/2007)