venerdì 6 novembre 2009

L'uomo che fissa le capre

Anno: 2009
Regia: Grant Heslov
Distribuzione: Medusa

Commedia nera che con umorismo grottesco e sagace disinnesca la reverenza nei confronti dell’intoccabile (soprattutto a Hollywood) U.S. Army.

Bob Wilton, un giornalista corrispondente dall’Iraq, incontra l’ufficiale Lyn Cassidy durante un’operazione militare. Lyn rivela al giornalista di fare parte di una unità sperimentale dell’esercito statunitense che ha il compito di combattere la guerra con il Flower Power. Wilton, coinvolto nelle operazioni di questo fantomatico esercito hippy, riuscirà a scrivere l’articolo della vita e ad apprendere gli insegnamenti dei cavaliere jedi…

Sceneggiatura affidata a Grant Heslov, che aveva lavorato con Clooney alla scrittura dell’ottimo “Good Morning Good Luck”, per quella che forse è la commedia più graffiante della stagione. Tratto dal romanzo di Jon Ronson, ispirato a sua volta da una storia vera (anche se mai confermata), “L’uomo che fissa le capre” riesce nel difficile intento di schernire la compostezza delle regole (militari e non) senza apparire maldestro. E lo fa ricorrendo all’illogicità, al grotesque più spinto. Nel film diretto da Heslov l’esercito americano parla di vagheggiamenti da LSD, di prostituzione, di capre che si possono addormentare solo guardandole. Il sottotesto si fa durissimo nei confronti della politica americana, ma l’umorismo stempera ogni possibile polemica.

Grandioso il cast perfettamente in parte. In ordine sparso: George Clooney, Ewan McGregor, Kevin Spacey e Jeff Bridges che sembrano i nuovi “4 dell’oca selvaggia”, ma che invece spazzano via con un'unica offensiva tutto il cinema di guerra hollywodiano rappresentato da Richard Burton, John Wayne & Co.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2117

giovedì 5 novembre 2009

Popiełuszko

Anno: 2009
Regia: Rafat Wieczynski

Produzione polacca imponente con 7 mila persone tra attori e comparse, 14 città e 7 mesi di lavorazione: il risultato di tale dispiego di forze è Popiełuszko, biopic di stampo fortemente televisivo diretto da Rafat Wieczynski.

La vita, divisa tra fede e lotta politica, di Padre Jerzy Popiełuszko, perseguitato dallo Stato che, a causa delle sue omelie che invocano alla libertà e chiamano a sé un numero sempre maggiore di fedeli, lo ritiene personaggio scomodo. Malgrado il popolo formi in difesa del sacerdote un servizio di ordine cittadino, l’opinione pubblica inizia una campagna diffamante nei confronti di Popiełuszko e la polizia non gli dà tregua. Un destino tragico lo attende…

La pellicola di Wieczynski (seconda prova per il regista) riesce nel doppio intento di fotografare un periodo storico piuttosto lungo e carpirne i molti aspetti sociali che sono andati mutando nel corso degli anni. Basti pensare che la storia inizia alla fine degli anni ’50 e segue la vita di Padre Jerzy fino alla morte avvenuta nel 1984. In questo lungo tragitto la pellicola trasmette con efficacia gli anni di lotta operaia, di intimidazioni, di tentativi di reprimere la libertà. Viene proclamata la legge marziale, Varsavia occupata, la Chiesa - anche grazie a Papa Giovanni Paolo II - si fa più influente e lo Stato annaspa. Ne paga le conseguenze Padre Jerzy Popiełuszko che diventa simbolo di una nazione il cui spirito di libertà non si è mai arreso (parafrasando le parole di Karol Wojtyła). Ben inseriti nel racconto i filmati veri (che avrebbero meritato più spazio) tra scene di massa e pellegrinaggi; ottima la scenografia che fotografa perfettamente i vari contesti storici. Adam Woronowicz nei panni di Padre Jerzy, infine, riesce a sostenere la lunga pellicola e a convincere sia come uomo che come parroco.

L’unico difetto del lavoro di Wieczynski, allora, è quello di avere un anima esclusivista. Difficilmente, infatti, chi non ha conosciuto il contesto storico o conosca la complessa situazione politica del Paese comprenderà molti dei passaggi narrativi. Wieczynski pare comunicare solo con la propria gente e ne esce fuori una pellicola ben fatta, ma decisamente settaria.

Diego Altobelli (11/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Popieluszko_Lottare_in_nome_della_fede-3592.html

mercoledì 4 novembre 2009

A boy called dad

Anno: 2009
Regia: Brian Parcival

La sorpresa della quarta edizione del Festival del Film di Roma ce la consegna l’inglese Brian Parcival con il delicatissimo "A boy called dad", pellicola capace di arrivare dritta al cuore e comunicare con tutti.

Liverpool, oggi. Il quattordicenne Robbie vive con la madre e la sorellastra dopo che suo padre li ha abbandonati. E’ di carattere buono anche se, come molti suoi coetanei, non sa dove indirizzare la propria energia. L’occasione gli si presenta un giorno e per puro caso. Infatti, dopo aver assistito a una lite furiosa, Robbie prende il figlio della sorellastra e lo porta via. Comincia così un viaggio nel cuore di tutte le emozioni: quella di essere genitore...

Senza girarci troppo intorno, "A boy called dad" è uno di quei rari film capaci di comunicare emozioni universali in modo autentico. Il regista Brian Parcival gioca con l’intimità e riesce nel difficile intento di mostrare gli animi dei personaggi. Infatti, pur con una sceneggiatura fatta per lo più di silenzi, in "A boy called dad" ogni scena rappresenta un passo in avanti verso la maturità e la crescita. Quella del piccolo Robbie, e quella dell’ancor più piccolo bambino che porta con sé. Forte, coraggioso e con un finale imprevedibile, "A boy called dad" meriterebbe di essere visto da tutti.

Incredibilmente bravo l’interprete principale Kyle Ward che cattura con la propria performance tutte le sfaccettature dell’ipotetico ragazzo – padre che, improvvisamente, si ritrova adulto e consapevole della propria umanità.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/aboycalleddad.htm

Sotto il Celio Azzurro

Anno: 2009
Regia: Edoardo Winspeare

Sul colle Celio, alla periferia di Roma, e poco lontano dal famoso ospedale militare, sorge Celio Azzurro, una scuola materna che sembra fatta in miniatura e che racchiude diverse, giovanissime, culture. Il film di Edoardo Winspeare, autore di quel "Galantuomini" presentato lo scorso anno sempre a Roma durante il Festival del Film, racconta la passione di un gruppo di maestri che lottano per far sopravvivere non solo l’asilo in cui insegnano, ma soprattutto i valori della famiglia, della pedagogia e della scuola.

Austriaco di origine, Edoardo Winspeare è stato adottato dal Salento italiano. Questa adozione ha portato alla produzione di cortometraggi e documentari sempre di buon livello. In seguito Winspeare si è saputo distinguere anche con le pellicole "Pizzicata" (1996) e "Sangue vivo" (2000). Ma con "Galantuomini", a dire il vero, l’anno scorso il regista non ricevette un buon riscontro di pubblico e critica, e in questo senso il ritorno al Festival nella sezione Alice nella Città con una storia sulla diversità e l’integrazione potrebbe essere letta (a ragione) anche come una rivincita nei confronti di una certa critica.

In "Sotto il Celio Azzurro" Winspeare diventa osservatore silenzioso e nascosto. Agli angoli di una classe, dietro i banchi, tra i cespugli. La cinepresa osserva e indaga stando in punta di piedi mostrando genitori confusi, insegnanti combattivi, bambini vivaci. Malgrado le razze e le etnie diverse. Sì perché Celio Azzurro è stato il primo asilo ad accogliere bambini stranieri in età prescolare tra le proprie mura. All’inizio molto osteggiato, ora cercato e fortemente voluto da tutti: genitori, bambini e insegnanti. La forza sta nel metodo di insegnamento utilizzato, diverso e in qualche modo rivoluzionario. "Sotto" il Celio Azzurro imparano tutti. I bambini nel confrontarsi con realtà nuove e diverse, i genitori nell’integrazione tra culture. Un vero e unico esempio di istruzione davvero nuova.

Immersione potente nella vita vera di educatori che lottano per il sogno di vedere tutti i bambini crescere insieme e diventare adulti in un mondo nuovo, "Sotto il Celio Azzurro" rappresenta un bellissimo esempio di cinema educativo.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://filmup.leonardo.it/sottoilcelioazzurro.htm

martedì 3 novembre 2009

L'uomo che verrà

Anno: 2009
Regia: Giorgio Diritti
Distribuzione: Mikado

Il regista del premiato "Il vento fa il suo giro" Giorgio Diritti torna al cinema con L’uomo che verrà, storia vera della strage di Marzabotto, avvenuta alle pendici del Monte Sole nell’inverno del 1944. Una delle pagine italiane più drammatiche della Seconda Guerra Mondiale.

Italia, 1943. Martina, una bambina muta, vive insieme alla sua famiglia nel paesino di Marzabotto (provincia di Bologna). Il paese, punto nevralgico per gli spostamenti militari, è preso di mira sia dai nazisti che dai partigiani che chiedono favori di vario genere alla comunità. Purtroppo, a seguito di uno scontro a fuoco, i nazisti scoprono l’inevitabile doppio gioco della famiglia di Martina. E sarà una strage…

Film della memoria. Pellicola storica raccontata sottovoce e con piglio decisamente formale. Come a voler rispettare, con questa scelta registica, il ricordo delle 770 persone morte in quella terribile strage. L’uomo che verrà rappresenta un momento importante per la quarta edizione del Festival di Roma. Ultimo film italiano in concorso, è probabilmente il più sentito, accorato e commovente tra quelli visti finora.

Per raccontare la storia di Marzabotto, Diritti prende il punto di vista della piccola Martina, resa muta a causa di un trauma (la morte del fratellino), perseguitata dai bambini del paese, ma piena di vita e consapevole di tutto. In essa, Diritti incarna lo spirito della "vera" resistenza. Non quella formata da coloro che impugnarono i fucili (sembra suggerire il regista), ma quella fatta dalle persone comuni, prime vittime della guerra. Anzi, di tutte le guerre. Martina è l’anima della comunità. Un paese silenzioso in cui si parla poco (e in dialetto per non farsi capire dagli estranei, sia partigiani che tedeschi), che nasconde nel silenzio i propri pensieri. Bello, a tal proposito, il parallelismo tra il tema scritto dalla piccola Martina a scuola (bruciato appena letto) e l’incapacità delle sorelle di vivere liberamente i propri sentimenti.

Ottime le interpreti principali Greta Zuccheri, la sempre “intimamente forte” Alba Rohrwacher, e Maya Sansa.

Un film per non dimenticare. Forse eccessivamente lenta la prima parte e vagamente “scolastico”, ma se ne capisce il nobile intento di rispettare la nostra memoria.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/anteprima-L_uomo_che_verra_Dedicato_a_tutti_coloro_che_verranno-3447.html

Vision

Anno: 2009
Regia: Margarethe von Trotta

Torna lo stile ruvido e assai cinico di Margarethe von Trotta, regista tedesca Leone d’Oro nel 1981 grazie a Anni di piombo, con Vision: pellicola “mistica” incentrata su una delle sante più eclettiche della Chiesa.

Fine dell’anno 1000 d.C. La vita di Hildegard von Bingen, scrittrice, poetessa, cosmologa, filosofa e scienziata, maestra guaritrice, entrata in monastero a otto anni e tormentata da visioni mistiche. Quando in età adulta confesserà il suo talento di parlare con Dio, comincerà per lei una esistenza tormentata…

Indubbiamente, Margarethe von Trotta dimostra una personalità spiccata e un grande talento nel gestire la macchina cinematografica e nel rapportarla con temi come carne, misticismo, fede. Il suo Vision, in concorso alla quarta edizione del Festival del Film di Roma, dimostra di essere una delle pellicole più interessanti della manifestazione. Intrigante, sporco, silenzioso, dal film della von Trotta si viene catturati. Buon ritmo, malgrado la trama indubbiamente piuttosto “statica”, buon uso diegetico della cinepresa che riesce a raccontare tutto, anche i sentimenti intimi dei personaggi. Un film che ricorda (e forse lo omaggia anche) il capolavoro La passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodore Dreyer. Con quella pellicola del 1928, Vision ha in comune l’intima percezione del divino attraverso l’uso della luce e degli sguardi. Non raggiunge quei livelli di perfezione visiva, però è ammirevole quanto la von Trotta riesca ad avvicinarvisi.

Ottima l’interprete principale Barbara Sukova, "affezionata" della von Trotta, attrice dal carattere versatile ed esordiente nel 1977. Fu anche protagonista di film come "Romance & Cigarettes" (John Turturro, 2005).

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbnovita/novita.php?id=692

G.I.Joe - La nascita del Cobra

Anno: 2009
Regia: Stephen Sommers
Distribuzione: UIP

Nati dalla mente prolifica della Hasbro, nota casa di produzione di giocattoli, i G.I. Joe sono probabilmente i pupazzi più famosi al Mondo. All’idea di partenza del primo pupazzo di gomma alto trenta centimetri (una versione maschile della Barbie) si devono centinaia di altri giocattoli o, per meglio dire, Action Figures, termine coniato appositamente proprio per il primo esemplare, uscito sul mercato nel 1964. A ogni modo le origini di G.I. Joe vanno ricercate ancora più indietro. Fu infatti il disegnatore David Breger a dargli vita su una striscia a fumetti nel 1942. Il comic ebbe un tale successo che, incredibile ma vero, ne venne realizzato un film nel 1945 dal titolo “The Story of G.I. Joe”. Del film in questione se ne sono perse le tracce, ma il successo del personaggio è proseguito per molti, moltissimi anni. Fino ad oggi.

Ora è Stephen Sommers (“La Mummia” 1 e 2, “Van Helsing”) a riprendere in mano l’idea di un gruppo di specialisti paramilitari alle prese con terroristi noti col nome di Cobra. Questi posseggono una potentissima arma biologica capace di corrodere qualunque superficie. Ai G.I. Joe il compito di assicurare l’ordigno alle forze del bene…

Il problema non è questo ultimo blockbuster “giocattoloso” dal titolo G.I.Joe: La nascita dei Cobra. La regia di Sommers infatti fa il suo dovere, senza infamia e senza lode, costruendo una trama da action movie piuttosto ordinaria, prevedibile e tutto sommato già vista, dirigendola con ritmo. Il risultato è quindi un giocattolo divertente e adolescenziale come uno scaccia pensieri. Né più, né meno. Anzi, forse persino migliore dei recenti “Transformers 2”, “Star Trek”, e “Terminator: Salvation” perché, a ben vedere, G.I. Joe sfrutta il tema dell’alter ego. Gioca sul concetto di “nemesi”. Riuscendo perfino, a brevi tratti, a intrigare lo spettatore.

Il problema come si diceva non è questo “G.I.Joe: La nascita del Cobra”, cui siamo certi seguirà presto un secondo capitolo. Il problema è che a vedere tutti questi “giocattoli” fare a cazzotti sul grande schermo si rischia di perdere il senso della parola film. Della parola cinema. E della parola genere.

Diego Altobelli (08/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2089

Nel paese delle creature selvagge

Anno: 2009
Regia: Spike Jonze
Distribuzione: Warner Bros.

Nasce da una favola breve scritta da Maurice Sendak questo difficilissimo adattamento cinematografico dal titolo Nel paese delle creature selvagge.

Max è un bambino inquieto che come molti coetanei non riesce a esprimere come vorrebbe i propri sentimenti finendo per auto esiliarsi in un mondo immaginario. Un giorno, a seguito di una furiosa lite con la madre, Max vede materializzarsi davanti ai propri occhi un mondo fantastico popolato da creature capricciose, inquietanti e manesche…

Dalla stessa casa di produzione di Michel Gondry arriva Nel paese delle creature selvagge, per la regia di Spike Jonze. E l’influenza “gondryana” si vede tutta fin dalle primissime battute della pellicola, per poi divenire forza espressiva sotto forma di giganti pelosi. Proprio gli amici immaginari di Max (interpretato da uno smarrito Max Record) rappresentano l’anima del film. Bisbetici, scontrosi, bipolari, dalla duplice valenza, a ben vedere le creature selvagge sono il film stesso. Una pellicola schiva, che tende ad allontanare lo spettatore (esattamente come le creature nei confronti del piccolo visitatore), costruita com’è su una trama che scava nella psicologia infantile. Facciamo che… io sono il re, dice Max. E da quel momento inizia un gioco di ruolo a cui partecipa anche lo spettatore. Facciamo che… ci sono delle creature che rompono tutto. Facciamo che siamo amici. Facciamo che guardiamo un film (dalla bellissima regia) difficile e contorto come sono a volte le immaginazioni dei bambini.

Visto in quest’ottica, ovvero come analisi psicologica di un bambino fatta attraverso il mezzo cinematografico, il film di Spike Jonze (lo stesso di Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee) è un piccolo gioiello. Verrebbe da dire quasi "un capolavoro". Ma l’effetto di finzione dura poco e ci si scontra inevitabilmente con un ritmo troppo lento e una trama che proprio non decolla. Effetto voluto, indubbiamente. Il regista, del resto, ci aveva già abituato a contorti viaggi psicologici, ma questa volta (forse proprio a causa del tema troppo specifico) non convince del tutto.

Diego Altobelli (10/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/recensione-Nel_paese_delle_creature_selvagge_Facciamo_che_-3544.html