mercoledì 9 novembre 2011

Warrior

Anno: 2011
Regia: Gavin O'Connor
Distribuzione: M2 Distribution

Lo stesso regista di Pride and Glory (presentato al cinema di Roma nel 2008), torna al cinema per tentare di rinnovare un genere: quello dei cosiddetti fighting movie. Botte da orbi come di consueto? Non solo. L’idea del film è nel contrapporre due storie lacrimevoli sullo stesso ring. Casi umani si incontrano, manca solo la nomination.

Due fratelli, i Conlon, che non si parlano da anni, sono tra i sedici migliori lottatori al mondo nella Lotta Grecoromana. All’angolo rosso, disperato con famiglia a carico e senza soldi; in quello blu, altro disperato, ex marine di ritorno dall’Iraq, semi alcolizzato e rissaiolo. Si giocano tutto sul ring. Arbitra Nick Nolte? No, lui fa l’allenatore...

Gavin O’Connor fa incontrare in un unico film le tematiche a lui care. La famiglia (come in Pride and Glory), e lo sport (come in Miracle). Quello che riesce a fare O’Connor inaspettatamente è riuscire a rendere entrambe le trame principali importanti allo stesso modo. Di più, con dei guizzi di regia che spaziano da i vari Rocky a Million Dollar Baby, fino ad arrivare a Lassù qualcuno mi ama, il regista trova l’audacia per descrivere anche le singole (difficilissime) scelte dei protagonisti durante l’incontro sul ring. Telecamera a mano, il regista si dimostra un vero e proprio asso.

In modo interessante, Warrior muove i corpi e li rende protagonisti in un dramma americano di stampo classico. Il sogno americano è quello della seconda opportunità. Avveniva anche nel recente The fighter. Qui però si piange di più grazie alla rabbia, la potenza, e la frustrazione espressa dagli attori. Si va al tappeto, ma ci si rialza più forti.

Diego Altobelli (11/2011)

One day

Anno: 2011
Regia: Lone Scherfig
Distribuzione: Bim

Si è ispirato al giorno di San Swithin - che cade il 15 luglio - lo scrittore David Nicholls per il romanzo best sellers “Un giorno” (edito in Italia da Neri Pozza). La leggenda vuole che se di 15 luglio pioverà, cadranno acquazzoni per i quaranta giorni successivi, se al contrario splenderà il sole, il cielo sarà sereno. A firmarne l’omonimo adattamento cinematografico è il regista Lone Scherfig, già autore del convincente e sensibile “An education”, questa volta un po’ limitato dalla sceneggiatura dello stesso Nicholls. Film interessante e romantico, vagamente ingenuo, più che altro caratterizzato da diversi punti deboli.

Emma è una ragazza carina, ma parecchio imbranata. Dexter è un giovane attraente e ambizioso. Si laureano lo stesso giorno, il 15 luglio del 1988; un po’ brilli passano la notte insieme, ma si perdono di vista la mattina successiva. La loro amicizia è destinata a durare quasi venti anni, incontrandosi un solo giorno all’anno…

Cinema e letteratura. Portando un esempio tutto italiano si potrebbe citare “Come Dio comanda”, di Salvatores su sceneggiatura di Ammaniti. Anche lì, malgrado a curare lo script ci fosse lo stesso autore del libro, il film ne uscì fiacco. La stessa cosa avviene con “One day”. L’autore Nicholls non riesce a valorizzare sullo schermo la storia utopica – ma proprio per questo romanticissima – dell’amore tra due amici. Nel film di Lone Scherfig tutto scorre via troppo facilmente come se il rapporto descritto fosse dato per scontato. Manca l’approfondimento, mancano le motivazioni, insomma manca il tempo. E il tempo, al cinema, è tutto. In questo caso anche di più, perché la pellicola, come fosse un calendario, “sfoglia” ogni scena. La vacanza insieme; l’incontro con i rispettivi fidanzati; i primi impieghi; la morte dei genitori; il matrimonio e poi… Tante scene staccate tra loro che non hanno però continuità. Per questa ragione diventa difficile affezionarsi ai personaggi, sentire la loro vicenda davvero “autentica” e lasciarsi commuovere. Il corto circuito è in agguato. Se sulle pagine di un libro si può anche stare al gioco e credere in un rapporto vissuto un solo giorno all’anno, visto sul grande schermo, questo diventa assai più complicato: perché il realismo dettato dalle immagini, sospendono necessariamente la finzione romantica voluta dalla trama.

Brava la Hathaway e bravo Jim Sturgess. Quest’ultimo sembra essere ancora in cerca della consacrazione definitiva. Colpa del suo volto anni Ottanta. E di film troppo ambiziosi, e poco pratici.

Diego Altobelli (11/2011)

lunedì 7 novembre 2011

Un cuento chino

Vincitore della Sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma

Anno: 2011
Regia: Sebastian Borensztein

Parla di un incontro fatale il vincitore della Sesta edizione del Festival del Cinema di Roma. Un cuento chino (Un racconto cinese) è la storia dell’amicizia fra Roberto, uno scorbutico argentino, e un cinese che non conosce neppure una parola di spagnolo. A unirli? Il caso curioso di una mucca piovuta dal cielo durante un conflitto a fuoco…

Il regista Sebastian Borensztein, argentino, tratteggia nella sua opera prima un’Argentina grottesca, ironica, ma anche al tempo stesso commovente e in qualche modo toccante. Il grottesco e il fantastico, nel film di Borensztein, prendono vita nella realtà di un Paese scoperto, senza pelle. Impreparato e senza difese, sembra voler suggerire il regista. E quando nel film incomincia a emergere la malinconia di cui è venato, accade qualcosa di misterioso: si ha la sensazione che Un cuento chino appartenga al genere dei cartoni animati! Il trucco è tutto nel testo. Nella sceneggiatura che riesce a creare relazioni tra le persone e gli avvenimenti. Se all’inizio si rimane spaesati, poi non si può che rimanere catturati, imbrigliati anche noi, come le mucche, gli amanti i precipizi e i cinesi, nella rete di possibilità che il film (o la vita?) ci mette a disposizione. Un effetto incredibile.

Qualcuno si ricorderà del thriller vincitore dell’Oscar nel 2010 “Il segreto dei suoi occhi”, ebbene in Un cuento chino troviamo lo stesso protagonista: un bisbetico, ma in fondo buonissimo Riccardo Alberto Darin. E si può dire che senza di lui il film non avrebbe forse avuto lo stesso effetto straniante.

Stravagante, buffo, a tratti eccessivo, ma in fondo libero. Libero di raccontare, di far sognare, di andare oltre. Un film bellissimo, un esordio che lascia esterrefatti.

Diego Altobelli (11/2011)

Voyez Comme ils Dansent

Anno: 2011
Regia: Claude Miller

Un viaggio nei ricordi. Vic, attore e clown, si suicida lasciando le uniche due donne che l’hanno amato. La prima è una filmaker, la seconda una infermiera. Si rincontreranno in treno, sul Canadian, e cercheranno di capire in che modo sono state amate dallo stesso uomo…

A essere qualunquisti, si potrebbe affermare che ci troviamo di fronte al solito film come dire "alla francese". Non ce ne voglia il grande Claude Miller, già allievo di Truffaut - che per l’occasione ci fa rivedere sul grande schermo Maya Sansa, la brava attrice italiana che avevamo lasciato in Buongiorno notte di Marco Bellochio – ma nel bene e nel male Voyez comme ils dansent riassume alcune caratteristiche del cinema francese classico. La più importante di queste, è certamente rappresentata dal dualismo di amore e morte. In questo caso poi, l’incontro tra i protagonisti assume i toni del fatale, del destinato, dell’ineluttabile. Esce fuori un film buono nella prima metà, quasi ipnotico, ma fiacco nella seconda. Causa anche un colpo di scena forse non proprio riuscitissimo e una sceneggiatura che da un certo punto sembra perdere di peso.

Non male il risultato, a ogni modo. Sicuramente una delle pellicole più interessanti della sesta edizione del Festival di Roma. Oltretutto può vantarsi anche del volto di James Thierre, vero talento e figlio di Victoria Chaplin, per raccontare questo straziante e commovente lungo addio.

Diego Altobelli (11/2011)

Une vie meilleure

Anno: 2011
Regia: Cedric Kahn

Potrebbe essere tra i papabili alla vittoria della sesta edizione del Festival del Cinema di Roma questo “Una vita migliore” di Cedric Kahn. Dramma esistenziale sulla ricerca del domani, in un panorama storico non propriamente ottimistico.

Yann e Nadia - lui trentacinque, lei ventotto - sognano di aprire un ristorante. Così, malgrado la non rosea situazione finanziaria in cui versano, i due si avventurano in una giungla di finanziamenti selvaggi. Quando l’acqua arriva alla gola, Nadia è costretta ad accettare un lavoro in Canada e lasciare il figlio a Yann. Lui, deciso a salvare il ristorante, affronterà da solo la dura indifferenza della quotidianità...

Guillaume Canet, lo Yann protagonista del film, l’avevamo già visto l’anno scorso in “Last Night”, sempre a Roma, sempre in occasione del Festival. Ma mentre lì era costretto a seguire una trama statica e con pochi slanci, qui riesce a emergere in un dramma toccante finanche alle lacrime. Ammesso che vi facciate convincere da alcune scelte non proprio felici di sceneggiatura. Per essere chiari, la prima parte del film appassiona, mentre la seconda risulta un poco annacquata. Volendo, forzatamente retorica. Unica nota a piè di pagina in un film comunque registicamente molto, davvero molto solido.

Kahn mette al centro il dramma umano. La Parigi che descrive è fatta di immigrati clandestini e destini sospesi. Quasi irriconoscibile, Parigi contrasta il paesaggio innevato del Canada proposto nel finale. Difficile dire se il regista voglia far credere in un happy ending, o sottolineare la desolazione a cui la condizone umana di oggi ci confina tutti. Bel film.

Diego Altobelli (11/2011)

Trishna

Anno: 2011
Regia: Michael Winterbottom

Drammi e buoi dei paesi tuoi. Michael Winterbottom, dopo “The killer inside me” arriva alla sesta edizione del Festival del Cinema di Roma con un dramma dal sapore di rivolta culturale.

Trishna vive di stenti insieme alla numerosa famiglia nelle campagne di Rajastan. Una sera incontra Jay, un ragazzo molto carino che si innamora di lei. I due, dopo un primo timido approccio, vanno a vivere a Bombay. Purtroppo, i giorni felici sono destinati a finire quando viene a mancare il padre del ragazzo e Jay è costretto a ereditare il lavoro di direttore di Hotel. Da quel momento il rapporto tra i due si trasforma in qualcosa di fisico e violento…

La scorsa edizione si parlava al festival del problema della violenza sulle donne radicata nell’India di oggi con il film “Gangor”, prodotto da Rai Cinema. Quest’anno si propone la stessa tematica attraverso l’occhio del regista Winterbottom. Tratto dal romanzo “Tess of the D’Urbervilles” di William Thackeray, già portato sullo schermo nel 1977 da Roman Polanski, “Trishna” inizia come racconto di formazione, dai toni vagamente antichi, per poi trasformarsi in uno strano mix di sesso e violenza. Nei panni della problematica ragazza che dà il titolo al film troviamo Freida Pinto (la ricorderete in “The Millionaire”, premio Oscar nel 2009) che si fa carico del peso della pellicola. Tutto su di lei, il dramma si dipana con delle scelte narrative che però non convincono pienamente. “Trishna” parla dell’India e della cultura indiana, e questo è probabilmente il suo maggior pregio. Dall’altra però usa un linguaggio di non facile approccio. Nello specifico, le scelte della ragazza, dettate da una sottomissione psicologica che affonda le sue radici in una cultura evidentemente maschilista, non sempre risultano comprensibili, minando la visione.

Almeno ci si rifà con gli occhi. L’India descritta nel film è un fluire di cultura, mistero e caos. I due protagonisti sono belli da far invidia. Ma in questa bellezza l’incubo della violenza è dietro l’angolo. Difficile, sembra dire Winterbottom, capire dove finisca l’amore e inizi lo stupro.

Diego Altobelli (11/2011)

I primi della lista

Anno: 2011
Regia: Roan Johnson

Storia vera di un gruppo di giovani che negli ani ’70, in Italia, finiscono per chiedere asilo politico all’Austria.

Tre amici, durante una fuga in Jugoslavia si fermano a un autogrill. Lì vedono un gruppo di militari che scherzano con i mitra inneggiando alla rivoluzione. I tre amici non pensano che il giorno dopo è il 2 giugno, e pensano a un colpo di Stato. E’ l’inizio di una girandola di incredibili situazioni...

Un altro esordio in questa sesta edizione del festival di Roma che incontra solo nomi nuovi o quasi. Nel caso di Roan Johnson, regista di questo interessante "I primi della lista", suo solo un episodio del film "4-4-2: il gioco più bello del mondo", prodotto da Paolo Virzì. Interessante perché riesce a far incontrare in campo neutrale due generi opposti come sono la commedia e il racconto storico. In questo caso il fatto vero narrato del film è talmente surreale e al tempo stesso suggestivo che riesce a strappare molte risate. Merito anche del cast dove primeggia Claudio Santamaria, da sempre a suo agio in ruoli sopra le righe sullo sfondo degli anni Settanta.

E’ un film piccolo, dal budget modestissimo, che ha potuto contare su due (dei tre) protagonisti del tutto esordienti e messi alla prova con un film comunque non semplicissimo. Ricercata anche la colonna sonora, che con un certo coraggio si allontana dai Settanta e si avventura nei mitici Ottanta.

"I primi della lista" è volendo un film figlio di questa precarietà che è ormai radicata nei nostri giorni. Precario il budget, storia che vacilla tra la commedia grottesca e la denuncia storica, vacillanti le motivazioni e tutto sommato anche gli esiti. Ma certo non si può dire che al regista sia mancato il coraggio.

Diego Altobelli (11/2011)

Too Big to Fail - Il Crollo dei Giganti

Anno: 2011
Regia: Curtis Hanson

Curtis Hanson, ispirandosi al best seller omonimo di Andrew Ross Sorkin, mette in scena la sconcertante cronaca della crisi finanziaria del 2008. Quella, per intenderci, che ha portato all’attuale, preoccupante, situazione economica mondiale. Il lavoro di Hanson è rigoroso, con un ritmo frenetico e un finale spiazzante.

Attorno alla figura di Henry Wilson, segretario del tesoro ed ex presidente di Goldman Sachs, si muovono le figure dei presidenti delle più importanti banche d’America. Sono magnati che muovono i fili del Mondo e che si trovano di fronte a una situazione difficile: cercare di salvare l’intero pianeta dal collasso economico. Tra fallimenti e "manovre" estreme, alla fine Wilson riuscirà a convincerli a compiere un’ultima, estrema, scelta...

E’ il caso di dire che, considerando il tipo, il lavoro di Curtis Hanson ha parecchi pregi e pochi difetti. Nella redazione di stampo giornalistico dei fatti che hanno portato le banche più importanti d’America a essere considerate "troppo grandi per crollare" (da cui il titolo) Hanson si fa forte di una sceneggiatura praticamente senza stacchi, esplicativa e incalzante. A giovarne naturalmente è il ritmo. A pieno regime, il film si dipana seguendo la figura di Wilson (un grande William Hurt) alle prese con una situazione che si fa via via sempre più irrisolvibile. La sceneggiatura è il punto di forza del film anche perché si è messi di fronte a un cast di stelle davvero incredibile. Paul Giamatti, Bill Pullman, James Woods, Cynthia Nixon sono solo alcuni dei nomi e le loro interpretazioni sono a dir poco un vero spettacolo.

Manca forse il dramma umano, e ciò rende "Too big to fail" un prodotto più che altro documentaristico. Ma il risultato è buono e fa riflettere su varie cose. Non ultima, la quasi totale assenza di figure femminili nei posti di comando del Mondo.

Diego Altobelli (11/2011)

Poongsan

Anno: 2011
Regia: Juhn Jaihong

Sulla carta questo "Poongsan" sembrava una specie di "Rambo III" con più introspezione. Detto così non è che convinca molto l’idea, ma effettivamente è ciò a cui si pensa una volta usciti dalla proiezione.

Un giovane attraversa la Corea da Nord a Sud, superando i pericolosi confini, per recapitare a famiglie separate tra loro i messaggi dei loro cari. Contattato da uno dei Governi, Poongsan viene incaricato di introdursi in Corea del Nord e salvare una donna che conosce importanti segreti. Lungo la strada del ritorno tra i due scoppia l’amore...

Il regista è un discepolo di Kim Ki Duk che per l’occasione produce e scrive la sceneggiatura, tale Juhn Jaihong che non fa un brutto lavoro, tutt’altro, ma evidentemente pecca nel ritmo, nell’assenza di equilibrio tra autorialità e intrattenimento per le masse. Il film in questo senso è anche assai strano, perché davvero si passa da scene di azione e violenza ad altre fatte di silenzi e attese. Il risultato però non è che convinca proprio in pieno. Manca probabilmente anche quell’estetica del maestro Kim Ki Duk che lo ha reso celebre in tutto il Mondo. Insomma, la pennellata del maestro."Poongsan" si è rivelato un successo in patria, la distorta soluzione finale salva in extremis il regista donando al suo lavoro un tocco da revenge movie che buca lo stomaco.

Non basta a elevarlo tra i grandi. E si pensa alla fortuna dei principianti.

Diego Altobelli (11/2011)