mercoledì 22 dicembre 2010

Tron - Legacy

Anno: 2010
Regia: Joseph Kosinski
Distribuzione: Walt Disney

Ambiguo seguito del leggendario "Tron" del 1982, che introduceva al cinema l’idea di realtà virtuale. Questo “Legacy” ne arricchisce l’ambientazione, anche grazie al 3D, ma perde un po’ in termini di spontaneità e chiarezza narrativa.

Kevin Flynn, ora scomparso, è il direttore nominale della multinazionale di informatica Encom. Sono trascorsi oltre venti anni da quando Clou, alter ego di Kevin Flynn, è diventato padrone assoluto del mondo virtuale di Tron. Alan, il figlio di Flynn, è convinto che il mondo informatico deve essere condiviso con tutto il mondo, liberamente e gratuitamente, per questo rifiuta di prendere il posto del padre. Ma quando, tramite un vecchio macchinario, si ritrova nel mondo di Tron, sarà costretto ad affrontare l’alter ego digitale del padre e cambiare idea in merito al suo futuro…

Per chi vide “Tron” quello che colpisce di questo “Tron – Legacy” è che potrebbe essere visto come un terzo episodio, e non un seguito del film del 1982 diretto da Steven Lisberger. Infatti la trama di “Legacy” racconta eventi che non erano stati narrati nel primo capitolo, dove il cattivo era Master Control Program, un’enorme intelligenza artificiale. Il film diretto da Joseph Kosinski quindi fa un salto in avanti un po’ troppo lungo rendendo una trama già di per sé non chiarissima (e diciamocelo: altamente improbabile anche per il genere) persino più farraginosa. “Tron Legacy” quindi delude le aspettative del vecchio pubblico di appassionati, nel tentativo di conquistarne di nuovi. L’operazione è riuscita a metà, in quanto da una parte il look generale del film appare più accattivante, avvolgente e realistico, perfettamente al passo coi tempi; dall’altra si perde un po’ in termine di stupore. Manca quella – chiamiamola – follia descrittiva che caratterizzava il primo episodio, come pure una certa temerarietà e ironia di fondo. Queste cose sono un po’ difficili da capire se non si è visto il primo episodio, e quindi il consiglio è quello di recuperarlo prima di vedere questa nuova versione.

Se non si avrà occasione di farlo, comunque, si potranno godere di oltre due ore di effetti speciali, un 3D convincente, combattimenti e un finale di grande pathos anche se minato da un messaggio (quello sulla condivisione del mondo di Tron) non proprio chiarissimo. Ultimo appunto sugli attori dove Jeff Bridges, alquanto indeciso se abbracciare o meno la filosofia zen (vedere il film per capire) torna ad addestrare un figlio, Garrett Hedlund, piuttosto impulsivo, anche dal punto di vista recitativo. Il migliore in campo è Michael Sheen, lasciato a briglie sciolte fa della recitazione il suo campo di battaglia naturale. E li batte tutti.

Diego Altobelli (12/2010)

martedì 21 dicembre 2010

Awake - Anestesia cosciente

Anno: 2008
Regia: Joby Harold
Distribuzione: Eagle Pictures

Il film "Awake", esordio alla regia per Joby Harold, è un thriller di ispirazione metafisica. Clayton è un bel rampollo orfano di padre in attesa di ricevere un cuore nuovo. La madre del ragazzo vorrebbe affidare l’operazione al medico di famiglia, ma Clay insiste affinché sia il dottor Jack Harper, suo amico e intimo confidente, a dirigere l’intervento.

Tutto sembra andare secondo regime, ma quando il ragazzo si trova sotto "i ferri" si accorge di non essere del tutto anestetizzato. Il suo corpo, infatti, continua a sentire dolore, senza potersi però muovere o chiamare aiuto. E’ la cosiddetta "anestesia cosciente". Per resistere al dolore di un intervento a cuore aperto Clay si rifugia nei suoi ricordi, ma proprio lì scoprirà cose dolorose sulla sua vita...

Il presupposto è di quelli interessanti, la realizzazione è di quelle mediocri. Malgrado il cast: il "buono" Terrence Howard, lo "schianto" Jessica Alba, e il "jedi" Hayden Christensen, il film finisce per fallire il suo lancio. Commettere il fallo in area. Mandare a monte la partita. Inizia lento, lentissimo, con trenta minuti di antefatto che "preparano il campo" ad una trama che in qualche modo (considerando il titolo) già ci si aspetta. E quando arriva il momento topico del film, ovvero il momento dell’incisione in difetto di anestesia, si ha la sensazione che questo duri troppo poco. Si va oltre allora, speranzosi, giungendo a quello che dovrebbe essere il giro di vite della trama, la sua svolta, ma anche lì il colpo di scena viene "gestito male" da una regia troppo frettolosa, svelandolo senza concedergli il giusto respiro narrativo.

A favore di cosa tutta questa fretta? Difficile dirsi. Il tema del "ricordo" come tragitto da percorrere per scoprire peccati dimenticati, non è nuovo al Cinema, ma in questo caso sfugge l’effettiva meccanica per cui un uomo sotto i ferri e a cuore aperto (!), invece di svenire, continui a rimanere cosciente e a pensare ai "fatti propri".

Insomma, ad una trama pretestuosa si unisce anche una improbabile realizzazione drammatica, e il film annega in un oceano pasticciato di domande. Il presupposto, lo ripetiamo, era interessante, ma il "tiro" è andato corto. Troppa fretta nel concludere per l’esordiente Joby Harold che realizza una pellicola da vedere solo in "dvd", il sabato sera, con la pioggia e senza amici da chiamare.

Diego Altobelli (2008)

Alfie

Anno: 2004
Regia: Charles Shier
Distribuzione: Uip

Alfred-Alfie-Elkins, è un giovane ragazzo di Manhattan che fa la bella vita lavorando per una piccola ditta di Limousine in affitto. Alfie, diviso tra il suo impiego di autista e i suoi sogni di indipendenza, vive con spensieratezza disarmante i suoi anni tra incontri fugaci, locali alla moda, e tante belle ragazze che lui tradisce sistematicamente non sentendosi mai pronto per una storia a lungo termine. Un giorno però la vita di Alfie cambia registro: quando scoprirà di avere un figlio, il giovane si troverà costretto a mettere in discussione il suo stile di vita e riflettere seriamente sui suoi sbagli...

Remake di discreta fattura di un film uscito alla fine degli anni settanta e interpretato, nell'originale, da uno splendido Michael Caine. L'originale Alfie divise il pubblico e la critica che lo giudicò forte e spiazzante, ma anche divertente e innovativo. Ora, a quasi un ventennio di distanza, il confuso personaggio di Alfred Elkins rivive nei panni di Jude Law in quella che potremmo definire una vera e propria prova da attore, dove la regia di Charles Shier funge solo da mero contorno.

La nuova pellicola è girata con una prevalenza di primi piani e stacchi rapidi che ricordano, con una adeguata fotografia, la pop-art degli ultimi trent'anni. Alfie è un lungo monologo riflessivo sulle insicurezze dei nostri tempi che costringe lo spettatore a vestire i panni di confidente del protagonista, a discapito del suo coinvolgimento emotivo. D'altro canto se la regia risulta accademica, gli interpreti sono davvero bravi interpretando personaggi che sembrano usciti, eterei, da una realtà che pare assumere, con il proseguire della vicenda, valenze simboliche. Degne di nota le musiche, interpretate da Mick Jagger e Dave Stewart, che riportano alla mente la malinconia segreta degli anni settanta. "Alfie" susciterà reazioni contrastanti: ad alcuni potrebbe piacere per la sua originalità, altri, invece lo odieranno per la sua irrisolutezza.

Diego Altobelli (2004)

17 Again - Ritorno al liceo

Anno: 2009
Regia: Burr Steers
Distribuzione: Warner Bros.

Ecco un altro soggetto che di tanto in tanto si rifà vivo sul grande schermo. Quello dell'adulto che ritorna bambino, o viceversa, che insomma per qualche strana ragione torna indietro nel tempo...

Gli esempi sono stati numerosi da "La vita è meravigliosa" del maestro Frank Capra, fino ai recenti "The family man" con Nicholas Cage, o "30 anni in un secondo" con Jennifer Garner. Prima di questi ultimi s'era visto "Big" con Tom Hanks, ispirato al nostrano "Da grande" con Renato Pozzetto.

Mike O'Donnell è un quarantenne disilluso e apatico che sogna di tornare al liceo. Detto fatto. Un angelo finge di gettarsi da un ponte e Mike, per salvarlo, si getta a sua volta in un vortice che lo fa tornare ad avere il corpo di un diciasettenne. L'uomo ora bambino, però, dovrà vedersela con la figlia, corteggiata da un bellimbusto, tentando nel contempo di aggiustare una vita che sembra destinata a segregarlo nel ruolo di perdente...

Operetta lieve, questa di "17 again", tutta architettata per rispolverare Zac Efron, a secco dopo il successo di "High School Musical", e Matthew Perry, ormai quasi dimenticato protagonista della serie Tv "Friends". Il risultato è di quelli che ti aspetti: senza infamia e senza lode. Qualche trovata divertente, come il giovane Mike che deve riconquistare il cuore della futura moglie che pare non riconoscerlo, o il corteggiamento "barely legal" che fa un ragazzo nei confronti della figlia, ma il tutto si riduce a un salto a canestro senza marcatori. La schiacciata va a segno, ma come partite abbiamo visto decisamente di meglio. E neppure la simpatia degli attori salva dalla noia un sottogenere cinematografico che da anni ha detto tutto.

Diego Altobelli (2009)

Alvin Superstar 2

Anno: 2010
Regia: Betty Thomas
Distribuzione: 20th Century Fox

Se avete amato la storia leggera e tenerissima di "Alvin Superstar", apprezzerete anche questo secondo capitolo.

Il trio dei Chipmunks è ormai affermato come realtà musicale mondiale. Ma senza un titolo di studio, anche loro tre non sono niente. Così, eccoli catapultati al liceo dove tenteranno di salvare il programma di musica. Ma tra i banchi di scuola ci sono le Chipette a dargli battaglia a suon di pezzi presi in prestito dalla discografia di Beyoncé e Kate Perry…

Chiaro che per vedere un film come "Alvin Superstar 2" dovete stare in serata. Se sarete nel giusto stato d’animo, vi aspettano un paio di ore di puro divertimento, a tratti perfino demenziale. Manca quella ventata di aria fresca che aveva caratterizzato il primo episodio, ma anche così, con l’inserimento delle Chipette (carina la lotta dei sessi che si inscena), il tutto fila via liscio come acqua.

Meno umanità (con un cast di attori ridotto all’osso), ma anche più ritmo. Vince la musica, alla fine. E all'uscita dalle sale fa sorridere la sensazione generale di essere stati presi per il naso da Alvin, ancora una volta.

Diego Altobelli (2010)

The Road

Anno: 2010
Regia: John Hillcoat

Tratto dal romanzo di Cormac McCarthy vincitore del premio Pulitzer nel 2007, "The Road" diretto dal regista John Hillcoat mantiene intatto la sua natura evocativa e violenta.

In un futuro imprecisato il Mondo è alla deriva. Bande di uomini e donne si aggirano per città vuote alla ricerca di case da depredare e persone da mangiare. In questo scenario inquietante, un uomo e suo figlio cercano di rimanere in vita, seguendo la strada, ma tenendosi anche a dovuta distanza da quella…

La grandezza del testo di McCarthy sta nella volontà di raccontare una storia crepuscolare rifiutando categoricamente ogni atto eclatante, ogni gesto eroico, qualunque evoluzione narrativa che potesse portare la storia nel territorio letterario che appartiene al “genere”. McCarthy, insomma, ha raccontato una storia di personaggi normali, ma inseriti all’interno di un contesto senza speranza: la fine del Mondo, appunto. Volutamente non ci viene spiegato nulla di quanto è accaduto alla Terra, e a fare compagnia il lettore (e ora lo spettatore) sono solo i ricordi dei due personaggi, le loro suggestioni e le loro emozioni. La forza di "The Road" è che quelle emozioni diventano il testo. Il romanzo. Dimostrando al lettore che non c’è bisogno di altro.

Il film di John Hillcoat rispetta fedelmente il testo di McCarthy, divenendo a tratti persino didascalico. Come si diceva all’inizio, mantiene intatta la natura evocativa e violenta, onirica e crepuscolare. Bravissimi gli interpreti tra cui spiccano i protagonisti Viggo Mortensen, capace di espressioni tanto umane da sembrare impossibili; Charlize Theron, il cui personaggio in questo rifacimento cinematografico viene leggermente approfondito; e il bambino Garret Dillahunt, efficace. Compare anche un irriconoscibile Robert Duvall nei panni di un vecchio uomo, la cui interpretazione non si dimentica facilmente.

Diego Altobelli (2009)

Codice Genesi (The Book of Eli)

Anno: 2010
Regia: Albert e Allen Hughes
Distribuzione: 01 Distribuzione

Giunge nelle sale questo “atto di fede” dal titolo Codice Genesi (decisamente meglio l’originale The Book of Eli) per la regia di Albert e Allan Hughes che un po’ a sorpresa si rivela un “western post-atomico”.

Eli vaga da solo per le lande deserte di un’America sopravvissuta a una catastrofe atomica. Sul suo cammino i predoni mangiano altri esseri umani alla ricerca di acqua. Lui però, ostinatamente, prosegue il suo cammino verso ovest, portando con sé una copia (l’ultima) della Sacra Bibbia. Quando Eli raggiunge una cittadina, il despota Carnagie scopre il libro e vuole impossessarsene per sottomettere l’umanità…

I fratelli Hughes si sono fatti le ossa tra video musicali e cortometraggi, prima di approdare al cinema con il biopic La vera storia di Jack lo squartatore con Johnny Depp e Heather Graham. E a voler essere onesti la fotografia da video clip è la prima cosa che salta agli occhi. Le scenografie e i costumi echeggiano gli anni ’80 e sembrano usciti direttamente da Wild Boys e We don’t need Another Hero, rispettivamente dei Duran Duran e di Tina Turner. In sceneggiatura invece, la prima parte in solitaria del protagonista - un grande Denzel Washington - tipica della filmografia “post-atomica” (pensiamo ai recenti "Io sono Leggenda" e "The Road", o al sempre verde "Mad Max") qui appare un po’ troppo statica e noiosetta. Il personaggio gira a vuoto e il tragitto verso ovest sembra un po’ illogico (per fare un esempio a un certo punto Eli incontra nuovamente dei personaggi visti in precedenza: come è possibile, ci si chiede, se procede sempre verso ovest?).

Buone le interpretazioni. Denzel Washington tiene il film facendo incontrare in campo neutro Ken il guerriero e Malcolm X (non è uno scherzo); più omogeneo Gary Oldman, la cui fine ricorda quella di Scarface; convincenti le protagoniste femminili Mila Kunis (uno schianto) e Jennifer Beals (Flashdance).Ma come si diceva, per trovare mordente bisogna aspettare la seconda metà del film, quando The book of Eli rivela le vere intenzioni: quelle di voler essere un western a metà strada tra Sam Peckinpah e Sergio Leone (con tanto di omaggio musicale a Ennio Morricone fischiettato da uno dei predoni al soldo di Carnagie). Da quel momento in avanti il film, oltre a farsi cinematograficamente più interessante (splendido il piano sequenza per la scena dell’assedio alla casa nel deserto), rivela anche la sua natura mistica. Il messaggio di fede che vuole inviare.

Albert e Allan Hughes firmano una parabola sulla speranza. Sul mistero della fede. Sull’incomprensibile che diviene il messaggio universale inviato da Dio e rivolto a tutti. Per spiegarlo, i registi usano un background (quello del futuro post-atomico) per natura flessibile a qualunque tipo di situazione, e in effetti in The Book of Eli c’è un po’ di tutto. Questo a conti fatti il suo unico limite, non necessariamente un difetto. Troppo laborioso. C’è da scommetterci: non verrà capito da nessuno, o quasi.

Diego Altobelli (2010)

domenica 19 dicembre 2010

Prince of Persia - Le sabbie del tempo

Anno: 2010
Regia: Mike Newell
Distribuzione: Warner Bros.

L’esperienza di Mike Newell (regista tra gli altri di "4 matrimoni e un funerale", "Donnie Brasco", "Harry Potter e il calice di fuoco") viene messa al servizio di un blockbuster fracassone, ma remunerativo. Quanto meno sulla carta. “Prince of Persia – Le sabbie del tempo” sfrutta niente meno che un trend nato nel 1989 sui personal computer. Nel videogioco in questione si prendevano le vesti di un principe spadaccino che, per salvare in un colpo solo principessa e regno, veniva messo alla prova da numerosi trabocchetti e un cattivissimo visir. Nella trasposizione cinematografica sembra non mancare niente per lanciare una nuova saga cinematografica...

Il figlio adottivo del re di Persia viene accusato della morte del padre e cacciato dal regno. Per provare la sua innocenza e scoprire il vero traditore si farà aiutare da una agguerrita principessa, in possesso di un magico pugnale. L’artefatto è in grado di far tornare indietro nel tempo, ma capirne il funzionamento non sarà facile...

Evidentemente alla Disney avevano voglia di lanciare un’altra saga di successo dopo la trilogia dei “I Pirati dei Caraibi”. Gli ingredienti ci sono tutti, e a produrre l’ennesimo giocattolone per tutta la famiglia c’è ancora il noto Jerry Bruckheimer. Un buon cast formato da Jake Gyllenhaal, Ben Kingsley e Alfred Molina dovrebbe assicurare un lavoro ben fatto... se non fosse che la sceneggiatura è tutta da riscrivere. Prince of Persia è il classico film in cui già dalle prime battute ci si rende conto che qualcosa non va. Fiduciosi, si procede nella visione, ma una trama frettolosa e dialoghi tagliati con l’accetta finiscono per confermare la sensazione iniziale. Peccato, perché è evidente lo sforzo produttivo. Il film di Newell gode di grandi effetti speciali e una ambientazione certamente magica. Purtroppo però riferimenti all’Iraq e dialoghi troppo improbabili per il tempo in cui la storia si sviluppa rovinano il grande lavoro.

Oltretutto la recitazione del protagonista Gyllenhaal non convince: l’attore sembra più concentrato a fare pose plastiche e ammiccare, che a recitare. Il premio Oscar Sir Ben Kingsley non si rinnova, proponendo un personaggio simile a quanto visto nel fantasy “L’ultima Legione”. Su tutti spicca Alfred Molina, che aveva le carte in regola per essere il vero protagonista del film.

Insomma, Prince of Persia è il film che si ispira al videogioco omonimo e che cerca di catturarne l’essenza. Operazione riuscita a metà a causa del debole intreccio.

Diego Altobelli (05/2010)

sabato 18 dicembre 2010

Megamind

Anno: 2010
Regia: Tom McGrath
Distruzione: Universal Pictures

Anni fa su Metro City precipitarono due capsule da un altro pianeta. Il destino volle che la prima cadde nel giardino di una famiglia per bene, mentre la seconda nel penitenziario della città. I due bambini contenuti nelle sfere, quindi, una volta adulti, cominciarono a sviluppare le loro incredibili capacità diventando uno Metro Man, l’incarnazione della giustizia; l’altro Megamind, un criminale senza scrupoli.
Oggi. Quando in una battaglia definitiva Megamind uccide Metro Man, si ritrova di colpo solo e con una città ai suoi piedi. E dopo un periodo di spasso, la noia prende il sopravvento. Sconfortato, Megamind in un’altra intuizione geniale decide di cedere dei superpoteri a un umano, così da poter avere di nuovo qualcuno da affrontare in battaglia. Ma a sorpresa l’umano diventa più cattivo di lui…

Nel bene e nel male, i riflettori del cinema continuano a tenere un faretto puntato sul tema dei supereroi. E così ecco che nasce anche “Megamind”, un cartone sicuramente divertente, con punte di ironia notevoli e delle scelte narrative da capogiro, ma anche piuttosto stancante. Volendo essere sintetici, si potrebbe dire che “Megamind” è l’ennesimo cartone divertente e spassoso, adatto a tutta la famiglia e quindi da consigliare senza remore. Purtroppo però va fatta anche una considerazione a corredo del tutto perché il cartone diretto da Tom McGrath, lo stesso di “Madagascar”, mostra abbastanza chiaramente il fianco a una certa stanchezza di fondo. Ci si chiede alla fine della proiezione se sia giusto provarle proprio tutte per spremere un tema fino al midollo. Fin anche a prendere in giro il tema stesso. La sua iconografia, il suo immaginario, la sua identità come elemento del fantastico. Qui si ride bellamente dell’immaginario di Superman. Metro Man ne è una incarnazione evidente, mentre Megamind è un possibile alter ego di Lex Luthor, ma naturalmente più grottesco. Ecco, il punto è che sfugge un po’ il senso di tale operazione. Perché ridere di una fantasia? Cosa si vuole dimostrare? Cosa si vuole davvero dire di nuovo? Forse nulla, e forse sono solo domande espresse da un vecchio lettore romantico e un po’ infastidito. Però, è evidente che nell’animazione della Dreamworks, a differenza di quella della Pixar, manca generalmente un po’ di rispetto nel portare avanti il racconto. C’è una certa strafottenza di fondo. E se pure si ride sulle prime, poi viene voglia di smettere, come se si stesse ridendo di qualcuno, o qualcosa, che non può difendersi.

Diego Altobelli (12/2010)

venerdì 17 dicembre 2010

The Tourist

Anno: 2010
Regia: Florian Henckel von Donnersmarck
Distribuzione: 01 Distribuzione

Fiacchissimo questo “The Tourist”, diretto dal distaccato Florian Henckel von Donnersmarck. Se non fosse per la coppia inedita Johnny Depp e Angelina Jolie, il film probabilmente non avrebbe neppure motivo di essere proposto nelle sale. Ma possono bastare due mostri sacri del loro calibro a salvare la baracca? Sorpresa, la risposta è no.

La donna del mistero del film si chiama Elise. Bellissima, enigmatica, sfuggente. L’Interpol gli è alla calcagna e lei, per far sviare le tracce, decide di coinvolgere nella sua fuga anche il turista Frank, matematico dal Wisconsin Tennesse. Da Parigi a Venezia con sottofondo romantico, ma il colpo di scena è in agguato…

A voler essere cattivelli si potrebbe affermare che “The Tourist” pare uscire da un libro della collezione Harmony. Ci sono due protagonisti bellissimi quanto improbabili; l’incontro fatale; la mafia russa; gli inseguimenti; e i baci rubati… Il cuore forse sospira un po’ leggendolo sulle pagine di un libro, ma al cinema il tutto si fa macchiettistico e molto, ma molto stancante. Non bastano certamente due mostri sacri (sprecati) a rendere plausibile un film che arranca già dalle prime pagine, pardon scene.

A peggiorare le cose, inoltre, ci si mettono anche gli attori italiani, come al solito relegati a ruoli di comparse come già visto in altri film pure recenti come “The American”. Nino Frassica, Raul Bova, Cristian De Sica, sono solo alcuni dei numerosi nomi nostrani che popolano la pellicola con esiti altalenanti.

Insomma, se avete voglia di vedere i due divi insieme e in azione, fatevi avanti. Bisogna ricordare però che alle volte continuare a sognare risparmia da cocenti delusioni...

Diego Altobelli (12/2010)

Le cronache di Narnia - Il viaggio del Veliero

Anno: 2010
Regia: Michael Apted
Distribuzione: 20th Century Fox

Si torna a Narnia a vele spiegate. E sì, perché al terzo tentativo, dopo un primo episodio affascinante ma stancante, e un secondo fiacco e trascurabile, “Le Cronache di Narnia” di C.S. Lewis si fanno finalmente davvero avvincenti.

Lucy e Edmond, ora adolescenti, si trovano in compagnia dell’odioso cugino Eustace quando il quadro che rappresenta un veliero in mare aperto, magicamente, li trasporta nel Regno di Narnia. I tre ritroveranno il principe Caspian in un’avventura ai confini del mondo che li avvicinerà di un altro passo alla maturità…

Michael Apted, il regista di action come “007 - Il mondo non basta” e “Extreme Measures - Misure estreme”, dirige con mano molto aggressiva questo terzo episodio delle Cronache di Narnia. Il risultato è di quelli che abbagliano. Mai come in questo caso il mondo di Narnia scintilla di magia e incantesimi, e non sono poche le volte in cui lo spettatore si scopre a bocca spalancata davanti tanta meraviglia. Inoltre, malgrado permanga l’impronta disneyana che vuole (anche giustamente) il fantasy creato da Lewis nei lontani anni Cinquanta più indirizzato a un pubblico di giovanissimi, il retaggio che si porta dietro il regista finisce per plasmare “Il viaggio del Veliero” rendendolo un tripudio visivo adatto a tutti.

Bravi anche gli interpreti. Ben Barnes, il principe Caspian, vuoi anche per la barba appare più adulto e convincente che nell’altro film. I due protagonisti Skandar Keynes e Georgie Henley hanno invece, finalmente, lo spazio per poter emergere. E lo fanno con grande convinzione, spiccando sugli altri.

Se avete voglia di sognare sotto le feste, insomma, “Le cronache di Narnia – Il viaggio del Veliero” vi offre una buona occasione per farlo. Non pensateci e salite a bordo.

Diego Altobelli (12/2010)

venerdì 10 dicembre 2010

I due presidenti

Anno: 2010
Regia: Richard Loncrain
Distribuzione: Medusa

Evidentemente c’è un motivo per cui i film incentrati su figure politiche durano in media due ore e mezza cadauno. E ce lo spiega inavvertitamente il regista Richard Loncrain, che si vede insignito dell’onere di concludere l’ideale trilogia sul primo ministro inglese Tony Blair ideata da Peter Morgan. Dopo “The Deal” e “The Queen”, entrambe diretti da Stephen Frears, arriva questo “I due presidenti”.

La storia della relazione speciale che si è instaurata tra il presidente Clinton e Tony Blair, entrambi di centro sinistra. Dallo scandalo Lewinsky, all’intervento della Nato nel Kossovo…

Come per i precedenti due film, anche in questo caso il prodotto finale è più che altro televisivo. Ciò che rimane alla fine della pellicola è la sensazione di essere andati troppo di fretta. Di aver ascoltato una storia, ma amputata di vari episodi. Il problema è allora effettivamente la mancanza di un respiro narrativo equilibrato, che si esige da una trama che vuole coprire circa dieci anni della nostra storia recente. Il film di Loncrain (un'oretta e mezza scarsa) cerca di ovviare al problema inserendo scene di vita coniugale che, per quanto gradevoli e simpatiche, poco c’entrano con la descrizione della forte amicizia che vi è stata tra i due personaggi descritti. Inoltre c’è da dire che sia Clinton che Blair non escono proprio bene da questa rappresentazione, e c’è da dubitare sul fatto che fosse un effetto voluto.

Insomma, bravi quindi solo i due protagonisti. Dennis Quaid forse è un po’ troppo caricaturale, ma supera la prova con mestiere. Michael Sheen invece conferma le sue incredibili capacità interpretative.

Diego Altobelli (12/2010)

sabato 4 dicembre 2010

The Poughkeepsie tapes

Anno: 2007
Regia: John Erick Dowdle

Ecco un bell'esempio di mockumentary. Anzi, ecco forse l'esempio migliore finora realizzato. Si chiama "The Poughkeepsie tapes" ed è diretto dal regista divenuto poi famoso per il remake (un pochino inutile) di "Rec", "Quarantine". John Erick Dowdle mette in scena il finto (vale la pena ricordarlo spesso...) reportage dell'FBI sul cosiddetto "Macellaio di Poughkeepsie", ridente cittadina a nord di New York.

Una squadra di agenti, dopo anni di ricerche, riescono alla fine ad arrivare all'abitazione del pazzo omicida di decine di persone tra uomini donne e bambini, ma invece dell'uomo trovano un archivio di centinaia di cassette dove lo psicopatico ha ripreso le sue vittime mentre venivano torturate. Non avete idea di cosa vi aspetti...

Varie cose da dire. Innanzitutto è un ottimo esempio di mockumentary perchè ne incarna tutte le caratteristiche. C'è il tono documentaristico, naturalmente, con le interviste ai protagonisti della vicenda; c'è il ritrovamento di materiale scottante, spesso una cassetta (in questo caso è da leggere al plurale); c'è l'aspetto mitico del racconto, dove il mostro diventa una figura quantomai astratta e sfuggente, implacabile e terribile; e c'è infine il confronto diretto con il pubblico seduto in sala, che assiste disarmato e impreparato all'orrore. Su quest'ulitimo punto c'è da lodare "The Pughkeepsie tapes", inoltre, perchè riesce con precisione chirurgica ad assecondare le aspettative, senza mai tentennare o tirarla per le lunghe. Esemplare a proposito la vicenda della vittima numero uno, una ragazza di nome Cheryl che finisce per incarnare l'incubo più grande di tutte: la catarsi con il mostro, metafora evidente del genere.

Inoltre, il film di John Erick Dowdle, non filma lo splatter. Il regista sceglie di non indugiare sull'aspetto "torture-porn" della storia, ma di giocare, se così possiamo dire, con la paura allo stato più elementare. Ci sono urla, ci sono squartamenti, ci sono bambini colpiti a morte, anche stupri di cadaveri, ma il film ti porta più a immaginarlo, che a vederlo. E' questo, a suo modo, è un risultato suggestivo quanto inquietante.

E ancora. Si potrebbe tirare in mezzo il "V for Vendetta" di Alan Moore, perchè il rapporto tra vittima e carnefice è molto simile, corredato di maschere, a quello rappresentato dal fumetto prima e dal film poi, diretto dei fratelli Wachowski. Si potrebbe evidenziare la cura con cui il racconto è descritto. Si potrebbero citare anche altre pellicole come "Il silenzio degli innocenti" o "Psycho". Si potrebbe infine sottolineare come sia la morbosità a vincere, che lega chi guarda a ciò che sta guardando. E della incapacità di farne a meno. Fa paura, come l'aspettarsi un seguito.

Diego Altobelli (12/2010)

giovedì 2 dicembre 2010

L'ultimo esorcismo - The Last Exorcism

Anno: 2010
Regia: Daniel Stamm
Distribuzione: Eagle Pictures

I mockumentary, come sotto genere cinematografico, hanno l’indubbio pregio di costare poco e incassare molto. E se pure incassano poco nelle sale, alla fine tra homevideo e compagnia bella si rientra della spesa.

Il reverendo Cotton Marcus è un predicatore che ha perso la fede, soprattutto a causa del fatto d’aver visto molti, ma molti casi di possessione rivelatasi poi dei falsi. Quando viene chiamato in Louisiana per l’ennesima ragazza che si crede sia posseduta dal diavolo, Marcus mette su una troupe cinematografica e decide di provare che il cosiddetto diavolo non esiste. Solo suggestione, dice. Sarà, ma la ragazzina è capace di salire sui muri…

Si parlava di marketing, all’inizio della recensione, perché, purtroppo, da dire sull’ennesima produzione furbetta c’è poco altro. Il mockumentary dovrebbe farsi via via più interessante con la visione. Quando si parla di “The Blair Witch Project”, ad esempio, si ricorda la crescente tensione, l’angosciante ambientazione, il finale a effetto. In “Lake Mungo”, per farne un altro, si parla di improvvisi colpi di scena nello svolgimento del racconto, di trama ben costruita, di retroscena interessanti. E persino in film più tecnici, ma che hanno sfruttato lo stesso escamotage narrativo come “Rec”, si rimane colpiti della efficacia della resa. Nel film di Daniel Stamm, invece, non solo abbiamo una trama piuttosto scontata, ma anche una cattiva messa in scena. Non vengono risparmiati i classici errori di forma, quindi, come inquadrature sfocate, riprese traballanti, penombra quasi onnipresente, così da rendere una visione già pesante, persino più stancante.

Ma quello che Daniel Stamm fa, è commettere un errore a monte di tutto il film. Cioè alla base dell’idea. In “The Last Exorcism” non si parla di un documentario fatto da un prete vero su una possessione vera, che sarebbe stato interessante da vedere. Si racconta invece di un documentario falso su un reverendo falso che fa un esorcismo falso su una ragazza non posseduta. E considerando che tutto questo lo scopriamo nei primi dieci minuti di film, la domanda è: perché continuare a stare davanti lo schermo?

Ci sarebbe da dire un'ultima cosa, che riguarda il finale a sorpresa con la possibilità di un seguito. Ma evitiamo perché questo non è cinema, è solo marketing.

Diego Altobelli (11/2010)

giovedì 25 novembre 2010

Harry Potter e i doni della morte - Parte I

Regia: David Yates
Anno: 2010
Distribuzione: Warner Bros.

Diviso in due parti squisitamente per motivi di marketing, “Harry Potter e i doni della morte” si presenta al grande pubblico sotto la direzione del regista David Yates, lo stesso che aveva firmato i precedenti due episodi dedicati al maghetto di Hogwarts. Questa volta il risultato sembra essere più pulito e omogeneo, anche se bisognerà attendere un pochino per poter dare un giudizio davvero esaustivo, quando nei cinema uscirà la seconda e conclusiva parte.

Caduta delle mani di Voldemort, oscuro signore deciso a far prevalere i maghi di sangue puro su quelli di sangue misto, Hogwarts è letteralmente assediata dalle forze del male. Harry Potter, anche a seguito della morte di Silente, è costretto a nascondersi e cercare gli horcrux, artefatti che contendono una parte della malvagità del signore della morte. Distruggendoli, potrà indebolire Voldenort e avere la sua chance per prevalergli. Ma l’impresa è ardua…

John Ford sosteneva che le cose migliori da dirigere per un regista sono: un paesaggio, una coppia che balla, e un cavallo in corsa. E se non fosse per la mancanza del cavallo, sembrerebbe che Yates si sia aggrappato proprio a tale detto per dirigere la prima parte di “Harry Potter e i doni della morte”. Ispirato anche dal fatto che il settimo libro fosse il più piratesco della saga, quello a cui la Rowling aveva concesso più azione e cambi di prospettiva, David Yates si perde nella profondità dei paesaggi desolati e nelle scenografie di ispirazione futurista. Il risultato è un film visivamente intrigante e narrativamente coinvolgente, anche per quelli che non sono cresciuti a pane e Harry Potter. Certo, questi ultimi troveranno qualche difficoltà a seguire i ragionamenti della bella Hermione per ricollegare tutti i retroscena della saga, ma comunque apprezzeranno la lampante efficacia di una trama che ricollega tutto. Ogni piccolo particolare visto in precedenza e rimasto ancora senza spiegazione. Ritroviamo così personaggi che sembravano essere lasciati da parte, oggetti magici utilizzati nelle primissime avventure, e vecchie locazioni che celano ancora qualche oscuro angolo nascosto.

Nel marasma di situazioni che la trama offre, David Yates riesce poi a confezionare la scena che, forse pure involontariamente, dà un effettivo senso a tutta l’operazione chiamata Harry Potter. La scena del ballo nella tenda tra Harry e Hermione, con il primo che riesce, malgrado la morte e la desolazione che lo circondano, a trovare il tempo di scherzare timidamente con l’amica, è toccante e meta-cinematografica. Sembrano due adolescenti che si scoprono adulti dopo una lunga avventura. E probabilmente è davvero così.

Diego Altobelli (11/2010)

venerdì 12 novembre 2010

The Social Network

Anno: 2010
Regia: David Fincher
Distribuzione: Sony Pictures

Piuttosto inaspettatamente David Fincher racconta con “The Social Network” una storia di solitudine estrema.

Nel 2004 Mark Zuckerberg ha l’intuizione di inventare una pagina web in cui confrontare e votare le ragazze più belle di Harvard. Nel giro di poche ore, il sito ha talmente tanti accessi da mandare in tilt tutto il sistema di connessione dell’università e Mark diventa famoso. Il giovane decide così di sviluppare quell’idea, espanderla, evolverla e trasformarla in Facebook, il sito internet più cliccato al mondo. Le battaglie legali per la paternità dell’idea non mancheranno…

La splendida pellicola di David Fincher è una specie di “tribunal film” con protagonisti dei giovani ventenni miliardari e agguerritissimi. Tra flashback e lotte legali con il coltello tra i denti, il film procede “fluidissimo” e senza impacci mostrando l’ascesa del futuro miliardario Zuckerberg. E indubbiamente, in questo aspetto, sta anche la forza del film: quello di riuscire a tratteggiare l’ambiguità del protagonista. Un nerd, un vero disadattato, un asociale che ha cambiato radicalmente il concetto di “amicizia” creando una cosa che ne semplificasse il valore rendendolo accessibile anche (e forse soprattutto) a quelli come lui. E’ la voglia di rivalsa a muovere il personaggio. E’ la rabbia, senza mezzi termini, a motivarlo. Questi sentimenti lo porteranno a tentare il colpaccio alle spese di amici (pochi) e conoscenti (molti).

Non sappiamo dire se l’attore che dà il volto a Zuckerberg, Jesse Eisemberg, appaia così inespressivo per scelta o per incapacità. A ogni modo la sua caratterizzazione appare convincente. Bravo anche Justin Timberlake nel ruolo del papà di Napster: una vera chicca.

“The Social Network” è film costruito su diversi piani, e questo è sicuramente il suo punto di forza. Fatto di numerosi strati significativi che ne amplificano il valore e ne complicano la lettura, anche filmica, il lavoro di David Fincher appare come un’analisi distaccata e profonda più dell’uomo “facebook” che dell’oggetto. Non dà giudizi di sorta, ma lascia intendere chiaramente la pena che prova nel vederlo da solo davanti alla scrivania.

Diego Altobelli (11/2010)

Unstoppable - Fuori controllo

Anno: 2010
Regia: Tony Scott
Distribuzione: 20th Century Fox

Il cinema di Tony - Anthony - Scott ha ormai da tempo preso una deriva, potremmo dire, “popolare”. Spieghiamoci. Esaurite le idee sulla serie spy-story, e finiti gli esperimenti cinetici con protagonisti cacciatrici di taglie (“Domino”) o ex guardie del corpo alcolizzate (“Man on Fire”), ora il regista di cult come “Top Gun” e “Spy Game”, da qualche tempo si è messo alle prese con l’America post 11 settembre. Quella che vede come protagonisti persone umili (pompieri, autisti, controllori, ecc.) al centro di situazioni di panico. Il precedente “Pellham 123 – Ostaggi in metropolitana” in qualche modo si potrebbe definire come un antefatto, un prequel ideale di questo “Unstoppable – Fuori controllo”. Abbiamo infatti lo stesso protagonista, l’attore feticcio Denzel Washington; abbiamo una ambientazione similare, lì la metropolitana, qui i treni; e abbiamo persino una struttura narrativa che, volendo essere pignoli, Tony Scott ricalca pedissequamente ormai da una decina d’anni, con rare variazioni sul tema. Parliamo in questo caso della cosiddetta “storia commentata”: praticamente intendiamo un film in cui non solo vediamo ciò che sta accadendo, ma vari personaggi esterni alla vicenda, la commentano come fossero a un talk show, spesso osservando a loro volta la situazione da un televisore.

In “Unstoppable – Fuori controllo” abbiamo tutto questo. Due personaggi, attori bravi ma francamente poco credibili nel ruolo come Washington e il giovane Chris Pine, si ritrovano a essere l’ultima speranza di fermare un treno in corsa finito per errore umano accidentalmente fuori controllo. Naturalmente non mancano i cliché del genere: il treno in questione trasporta materiale altamente tossico / infiammabile, viaggia contromano ed è diretto a tutta velocità verso un quartiere altamente popolato di famigliole felici. Il panico sale, ma non in sala…

Il problema è che Tony Scott propone un soggetto fuori tempo massimo per i film d’azione di oggi. Il suo “Unstoppable” poteva andar bene dieci, forse anche venti anni fa, ma adesso appare più che altro come il riciclo stanco di idee già viste. Il protagonista corre sui vagoni, c’è la coppia di incapaci che mandano tutto in malora, c’è l’ ex marine che fallisce nel tentativo di salvare tutti, il capo delle operazioni è un inetto, e la bella di turno (Rosario Dawson) – guarda un po’ – è intelligente e sa pure ammiccare. Insomma la sagra del già visto. Anche la regia, in questo caso, non è poi così convincente come molti film precedenti. Tony Scott poteva fare anche film dal soggetto “traballante” (pensiamo allo stesso “Domino” o “Deja Vu”), ma innegabilmente li confezionava con una regia di carattere. Idee visive chiare, espressioni della sua idea di Cinema. In questo caso la sua mano appare un po’ più stanca, meno ispirata che del solito. Realizza così un film che ha di buono solo l’idea che sono le persone comuni a trainare la Storia. Non quella di Hollywood, ma quella del Mondo.

Diego Altobelli (11/2010)

mercoledì 10 novembre 2010

Lake Mungo

Anno: 2008
Regia: Joel Anderson

Se state cercando un film - un po' horror un po' documentario - che vi lasci esterrefatti, allora "Lake Mungo" è ciò che fa per voi.

Australia, 2005. La storia incredibile della famiglia Palmer, travolta dalla morte della più giovane di casa, Alice, vittima di un incidente durante una gita al lago. I genitori e il fratello elaborano il lutto; finiranno per scoprire segreti incoffessati...

Al suo esordio come regista di un lungometraggio (suo soltanto un corto del 2002) Joel Anderson firma un mockumentary non solo intrigante, ma anche decisamente intelligente. Questo perchè "Lake Mungo" sfrutta con grande mestiere un tema piuttosto abusato nella storia del cinema: la casa infestata, e lo rielabora portando all'estremo quella che, sulle prime, appare come una banalissima storia di fantasmi. Difficile, per chi scrive, non anticipare nulla della trama, anche perchè così facendo si rovina molto della sorpresa (fortissima) che si ha vedendo il film. Il punto, volendo stringere il cappio, è che "Lake Mungo" raccontando i fatti attraverso la tecnica del documentario (con i presunti protagonisti della vicenda che parlano per interviste), va a toccare corde inaspettate. Nell'alternarsi di foto e filmati inquietanti, si finisce per parlare dell'elaborazione del lutto; di segreti nell'adolescenza; della famiglia intesa, però, come nucleo assente, e non presente, nella vita di tutti i giorni di una giovane ragazza.

Non è Alice a mancare, sembra suggerire il documentario, ma la famiglia stessa. Assente il giorno della scomparsa, assente prima, e assente dopo il fattaccio: alla continua ricerca di una identità. Una eterna corsa per un riconoscimento da parte di quella figlia che, pur facendone parte, sembra esserne estranea. E' l'adolescenza, con i suoi misteri e i suoi fantasmi che attendono solo di essere scoperti.

In una Australia cinematograficamente sempre interessante ("Lake Mungo" è l'ennesima produzione indipendente) Joel Anderson è disturbante, inquietante e un po' sadico. E "Lake Mungo" è un gran film.

Diego Altobelli (11/2010)

martedì 9 novembre 2010

Grotesque (Gurotesuku)

Anno: 2009
Regia: Koji Shiraishi

Koji Shiraishi è regista che ha un passato di cinema horror. Suoi film come "Carved" (2007) o "Noroi" (2005), alcuni dei quali poi ripresi da registi occidentali (si pensi proprio a "Carved" e all'italiano "Smile" del 2009). Con "Grotesque" Shiraishi propone la sua idea di torture porn, estremizzando il fattore splatter (che qui raggiunge punte notevoli), ma forse lasciandosi prendere troppo la mano.

Due giovani al loro primo appuntamento vengono aggrediti da un pazzo. I due malcapitati si risvegliano legati a una tavola di legno di uno scantinato, e lì subiranno torture di ogni tipo...

In "Grotesque" non c'è niente che giustifichi il gesto o la dimensione dell'orrore che stiamo vedendo. Tutto è ridotto all'osso e privo di senso: trama essenziale, dialoghi deliranti (sia del maniaco che delle vittime), scene di amputazioni (dagli arti al sesso) senza filtro... Dimentichiamoci quindi l'ipocrisia narrativa di un "Hostel", in cui ti affezioni a un personaggio per poi "godere" nei momenti in cui questo viene torturato. Scordiamoci la falsità registica di talune produzioni occidentali, che gioca con lo splatter facendoti vedere solo "quello che si può mostrare in una società civile". Tutte sciocchezze, sembra dire Shiraishi, qui c'è l'orrore. Nel film dei due giovani non gliene frega niente a nessuno e anzi, la loro innocenza - "grottesca", per l'appunto, e molto "giapponese" - che li porta a credere (su un lettino e mutilati di vari arti) della bontà del loro carnefice, alla fine spinge lo spettatore a "tifare" per il maniaco.

Ovvio, è tutto simbolico, ma purtroppo la regia di Shiraishi non è all'altezza degli intenti. Nel suo "Grotesque" si evince la volontà di criticare il sistema sociale giapponese (con la scena, fortissima, della masturbazione a schizzo), o persino la storia del Paese (nel finale una musica patriottica commenta il delirio sanguinolento), con una operazione che echeggia i capolavori dei connazionali Koji Wakamatsu o Takashi Miike. Il punto è che la tecnica di Shiraishi non raggiunge quegli standard qualitativi e il suo lavoro - interessante ma televisivo - viene invece interpretato come una scopiazzatura di altri torture porn, occidentali e non.

Diego Altobelli (11/2010)

venerdì 5 novembre 2010

Vuelve a la vida

Anno: 2010
Regia: Carlos Hagerman

Il regista Carlos Hagerman si ritrova nel suo Messico a raccontare le gesta di Long Dog, marinaio leggendario le cui gesta sono entrate nel mito. Donnaiolo, sempre sbronzo, capace di restare sott'acqua anche 4 minuti, Hilario Martinez, meglio conosciuto come Pejo Largo o Long Dog (chiamato così sia perchè era molto alto, sia perchè il termine "long", lungo, in messicano si interpreta anche volgarmente come "gradasso", o "gonfiato") viene ricordato con accorato affetto nelle spiagge di Acapulco per aver cacciato un gigantesco squalo tigre ed esserne uscito incolume.

"Vuelve a la vida" (Back to life) è sia il titolo del film, sia il nome di uno speciale cocktail a base di pesce fresco, noto in Messico per la sua capacità di far passare sbronze epocali. La scelta del titolo, quindi, diviene assai simbolico.

Il racconto di Hagerman, alla sua seconda prova dopo "Los que se quedan" (2008), si fa da subito piuttosto grottesco e l'aria del Messico riporta alla vita (un po' come suggerisce il titolo del film) le suggestioni di un'era dell'oro che oggi non c'è più. A ogni modo, il film è un romanzo impossibile, nato come un documentario sulla caccia allo squalo e diventato, quasi subito a sentire il regista, un inno alla gioia di vivere e alla goliardia. Le sbronze, le scazzottate, le donne, il mare, e gli squali. Quando realtà e leggenda divengono una cosa sola.

Diego Altobelli (11/2010)

Porco Rosso (Kurenai no Buta)

Anno: 1992
Regia: Hayao Miyazaki
Distribuzione: Lucky Red

Insieme a “Nausicaa nella Valle del Vento” “Porco Rosso” è forse il film più rappresentativo dello Studio Ghibli. Anche perché rappresenta una sorta di ideale giro di boa, un passaggio tra una prima fase dell'animazione, che aveva portato successi come “Laputa”, “Kiki's Delivery Service” e lo stesso “Nausicaa”, e una seconda fase in cui i film si sarebbero fatti più sofisticati e narrativamente più complessi, è il caso a riguardo de “La principessa Mononoke” o “La città Incantata”.

La trama: in un'epoca definita "degli idrovolanti" facciamo la conoscenza del pirata del cielo Porco Rosso, un aviatore colpito da una misteriosa maledizione che lo ha reso un maiale parlante. La sua abilità in volo però, è rimasta immutata...

La leggenda vuole che il nome "Ghibli" è lo stesso che i piloti italiani, durante la seconda guerra mondiale, davano al vento caldo che soffiava dall'Africa. Miyazaki, appassionato di aviazione, disse all'alba di una nuova era: "Facciamo soffiare un vento caldo nel mondo dell'animazione". Nel film, Ghibli è anche il nome del motore che il protagonista monta sul suo idrovolante e, naturalmente, non è un caso.

Un film colmo di citazioni e curiosità, quindi. Ad esempio la maledizione che colpisce il protagonista Marco è la stessa che poi colpirà i genitori di Chichiro ne “La città incantata”; molti i riferimenti all’Italia, terra amata dal maestro, come la Mole Antonelliana visibile nella sigla di chiusura o il nome di Ferrarin come ex commilitone di Porco, realmente esistito negli anni Venti. Comunque, al di là del gioco citazionistico, Miyazaki con "Porco Rosso" realizza effettivamente una specie di manifesto della sua animazione. Assenza di una vera distinzione tra personaggi buoni e cattivi, il tema della magia (anche se qui solo accennato), i paesaggi suggestivi e verdeggianti... “Porco Rosso” è allo stesso tempo un film maturo e una pellicola straniante. Inizialmente concepito come un cortometraggio celebrativo, Miyazaki non c’ha messo un secondo a sfruttare l’idea per farci un lungometraggio. Forte anche di una vena politica antifascista (“Meglio porco che fascista”, dirà il protagonista) che forse per la prima volta emerge così chiaramente in una sua produzione.

Il film vinse tra gli altri anche il premio come miglior colonna sonora consegnato a Joe Hisaishi, già collaboratore di Takeshi Kitano.

Diego Altobelli (11/2010)

giovedì 4 novembre 2010

The People vs. George Lucas

Anno: 2010
Regia: Alexandre O. Philippe

Alexandre O. Philippe è il regista di quello che forse è uno dei documentari più interessanti, ironici e riusciti degli ultimi anni. "The People vs George Lucas" dà voce ai fan di Guerre Stellari, letteralmente infuriati con il regista per aver stravolto la sua opera. Guerre Stellari, attraverso la prima riedizione rimasterizzata, e la seconda trilogia- prequel, ha effettivamente subito variazioni non solo visive, ma anche concettuali. Ci ritroviamo scene stravolte (come quella in cui Han Solo spara per secondo e non per primo nel bar del porto aeronavale), reinterpretazioni della Forza (nel 1977 una energia spirituale che poteva essere in tutti, oggi una energia legata al sangue e al dna). Quello che emerge è un affresco complesso che riesce a dare voce a tutti, anche allo stesso Lucas che, in un finale un po' buonista, dichiara di essere diventato, da regista anti major, un regista-giocattolo nelle mani di Hollywood. Una specie di Darth Vader dei nostri giorni. Lascia perplessi.

Lo stile è graffiante, il ritmo concitato, il tema è di quelli "scottanti", ma per gioco.

Da non perdere, infine, la parte in cui i fan ricordano il leggendario "Star Wars - Special Holyday," uno speciale natalizio di due ore, di cui mezz'ora completamente parlata in Woki senza sottotitoli. Esilarante, insieme ai centinaia di lavori realizzati dai fan in omaggio a Lucas, e mostrati nel documentario di Philippe, tra cui spicca una versione di "Misery non deve morire" con il regista come protagonista della vicenda. Bellissimo.

Diego Altobelli (11/2010)

mercoledì 3 novembre 2010

Yoyochu-sex to Yoyogi Tadashi no Sekai (Yoyochu in the land of the rising Sex)

Anno: 2010
Regia: Masato Ishioka

Controverso documentario su una delle figure chiave del panorama del porno giapponese. Parliamo di Yoyochu, nome d'arte di Tadashi Yoyogi, un uomo che da un passato nella Yakuza, riesce a sfondare nel mondo del Porno rivoluzionando e allo stesso tempo condizionando l'immaginario erotico di una intera nazionale. Il documentario diretto da Masato Ishioka ripercorre la storia del genere e ne fa emergere le contraddizioni. Si sofferma poi, con lunghe interviste allo stesso Yoyochu, sulla ricerca dell'orgasmo e i meccanismi (anche culturali) legati ad esso. Yoyochu è stato in un certo senso un innovatore, non privo di difetti o vizi, che ne hanno condizionato l'esistenza (con scelte particolari come quella di ipnotizzare, a un certo punto della sua carriera, le sue attrici): ha praticamente creato diversi generi come quello delle Idol, i primi amatoriali, fino al primo reality show a sfondo pornografico. Insomma, un innovatore che ha saputo sfruttare a suo vantaggio il lato nascosto di una intera società.

Curiosità: il regista ha dichiarato prima della proiezione di aver diretto questo film per dimostrare l'amore che esiste nell'ambiente del porno. In un certo senso (senza fare facile umorismo) c'è riuscito.

Diego Altobelli (11/2010)

martedì 2 novembre 2010

Let me in

Anno: 2010
Regia: Matt Reeves

Il regista di "Cloverfield" Matt Reeves mette le mani sull'omonimo horror svedese "Lasciami entrare" e compie quella che potremmo definire una calcomania arricchita dell'originale. Abbandona la Svezia, trasporta il film dalle parti del Messico, la ambienta negli anni Ottanta. Ma in buona sostanza non aggiunge nulla a quanto già era stato detto nell'originale.

Abby è una misteriosa adolescente trasferitasi da poco con il padre in un nuovo condominio dove conosce Owen. Il giovane amico ha però problemi a scuola con un gruppo di bulli che proprio non vogliono lasciarlo in pace...

Non male questo remake, forte di un'ottima ambientazione e una ricostruzione storica dell'era Reagan che si fa sentire. Insieme alla favola nera dei due giovani protagonisti che in questa versione americana si allunga un pochino, rendendo il tutto leggermente più pesante. Insieme ai messaggi di uguaglianza e tolleranza ancora più incisivi anche grazie all'utilizzo di effetti speciali che, a differenza dell'orignale low budget svedese, qui non tenta alcuna mediazione con il genere horror mostrandoci sequenze di vera paura.

Diego Altobelli (11/2010)

Oranges and Sunshine

Anno: 2010
Regia: Jim Loach

Chissà che non vinca qualche cosa questo "Oranges and Sunshine" di Jim Loach, debuttante figlio d'arte del più famoso Ken. Verrebbe da dire buon sangue non mente, perchè la pellicola presentata in concorso al quinto Festival del cinema di Roma è potente e coraggiosa come poche altre.

Storia vera dell'inglese Margaret Humphreys, assistente sociale che scoprì nel 1986 un terribile segreto nascosto dal governo. Negli anni Cinquanta l'Inghilterra deportò all'estero oltre centomila bambini con difficoltà famigliari per risparmiare sulle casse dello Stato. Alle famiglie dei bambini venivano inventate fandonie, ai bambini invece che i genitori erano morti. I piccoli si ritrovano sperduti, vittime di abusi e violenze di ogni tipo...

Un fatto recente (Gordon Brown è stato costretto a scusarsi pubblicamente per i fatti sopra citati) del nostro Mondo. Ed è forse qui il punto di forza del film di Jim Loach: quello di parlare della omertà che ancora vive nella nostra cultura. Ad aiutarlo in questo compito non facile per un esordiente, la grande attrice Emily Watson che tratteggia con determinazione un personaggio forte come un'onda sugli scogli.

Calibrata e sempre nitida, la regia del figlio Loach già promette grandi cose. La storia è sporca, il film un pò meno, e forse è un peccato, ma riesce comunque ad andare dritta sul bersaglio.

Diego Altobelli (11/2010)

Dog sweat

Anno: 2010
Regia: Hosein Keshavarz

Con il termine "dog sweat" vengono intese in gergo bevande alcoliche come whisky, vodka e altre. E viene utilizzato soprattutto dai giovani non ancora maggiorenni per identificare anche una sorta di ribellione dalle istituzioni e dalle regole imposte dalla società.

Iran, oggi. Storie di vari ragazzi e ragazze che si intrecciano cercando di superare le barriere del pregiudizio e della chiusura intellettuale voluta dal Paese in cui vivono...

Buon film. Va detto subito e chiaramente, ma forse manca di quella vera libertà intellettuale che la regia di Hosein Keshavarz va cercando ostinatamente per tutta la durata della pellicola. In pratica è un film di denuncia sulla mancata libertà di espressione che però non rompe effettivamente gli schemi. Non esce dai binari culturali che (probabilmente) la società iraniana impone. Questo rende anche particolarmente difficile parlarne in termini più specifici. Però, per fare un esempio, si parla di omossessualità, ma non si vede mai una carezza (per non parlare di baci!) tra due uomini. Si parla di adulterio, ma non c'è neppure un nudo (e anzi a letto si sta vestiti). Come se il film abbia cercato una mediazione tra ciò che si voleva dire e ciò che si poteva rappresentare. Perdendo però di efficacia.

Per il resto è un buon film - che echeggia l'Altman migliore di "America Oggi" - che rappresenta, al di là dell'amaro finale, una finestra sull'Iran. Speriamo che questa venga spalancata.

Diego Altobelli (11/2010)

Gangor

Anno: 2010
Regia: Italo Spinelli
Distribuzione: Rai Cinema

Rai Cinema produce l'interessante "Gangor", film diretto da Italo Spinelli che riserva qualche sorpresa.

Di Upin, fotoreporter appassionato del suo lavoro, scompare. Un suo Amicoo si mette sulle sue tracce, ma si ritroverà perduto in una storia di violenza sulle donne...

Italo Spinelli dirige in modo convincente questo "thriller drammatico" ambientato nell'India del Bengala occidentale. Gli anni passati nel cinema documentaristico emergono dalla fotografia e da una certa capacità di catturare la naturalezza dei posti in cui il film è girato. Questi elementi, uniti a una trama che si incentra sul paradosso culturale che vede l'India sia la patria di Shiva, sia un Paese dove la violenza sulle donne viene taciuta, fa del film di Spinelli un'opera affascinante, molto interessante, e coinvolgente.

Buona in questo caso la sceneggiatura isipirata a un racconto di Mahasweta Devi, pubblicato anche in Italia da Filema nel volume "Trilogia del seno".

Diego Altobelli (11/2010)

Haeven - In a better world

Anno: 2010
Regia: Susanne Bier

Dopo aver rischiato di vincere l'Oscar come miglior regista con "Noi due sconosciuti" (2007) e "Dopo il matrimonio" (2006), Susanne Bier torna sul grande schermo - e al Festival del Cinema di Roma - con una storia potentissima.

Anton è un medico del Darfur diviso tra Africa e Danimarca, dove ha lasciato moglie e figli. Proprio il più grande dei due piccoli, Elias, fa la conoscenza di un ragazzino difficile trasferitosi da poco nella comunità, Christian. I due bambini stringono amicizia, ma il disagio giovanile di Christian, dovuto alla perdita della madre, porterà i ragazzini a mettersi nei guai. Anton cercherà di insegnare loro a stare al mondo...

Quello che Susanne Bier riesce a fare con astuto mestiere e grande ispirazione artistica è quello di amalgamare due film distinti e renderli un unica entità. Da una parte abbiamo la situazione del Darfur, con la situazione dei medici che cercano di tamponare una ferita profonda del Mondo. Dall'altra abbiamo un panorama completamente diverso, la tranquilla e agiata Danimarca, con la vicenda di bullismo che lega i due giovani protagonisti. A unire due trame e due situazioni così profondamente diverse è il protagoinista Anton che riesce a trovare una risposta morale al problema esistenziale che aleggia nell'aria. Rispondere alla violenza con la violenza? C'è un'altra via? Se sì, come applicarla.

Forse si dirà che la pellicola pecchi di buonismo, e potrà apparire vagamente ingenua. Ma al contrario quello della Bier, oltre che essere un film girato in modo impeccabile, è un messaggio importante. Esiste un'altra strada. Esiste un mondo migliore ancora possibile.

Diego Altobelli (11/2010)

The Woodmans

Anno: 2010
Regia: C. Scott Willis

La storia vera della famiglia Woodman, noti artisti colpiti dalla morte della giovane Francesca, la più piccola della casa, suicida a 23 anni.

Il documentario diretto da C. Scott Willis ha trionfato al Tribeca Film Festival nel 2010. La regia alterna interviste ai protagonisti a immagini dei lavori degli artisti. A colpire, naturalmente, è la triste vicenda della giovane Francesca, i cui lavori da fotografa sono ancora oggi attualissimi e richiamano l'attenzione del mondo dell'arte contemporanea. Il film di Willis non tenta di indagare sulle motivazioni che hanno spinto all'estremo gesto, ma astutamente se ne tiene a distanza, indagando invece sulla capacità di reagire della famiglia Woodmans. In questa ottica, il film acquista un valore aggiunto. L'arte come motivo di reazione ai sensi di colpa e all'autodistruzione. Non è quindi un film sulla morte di un'artista, ma una pellicola sulla capacità di un'intera famiglia di reagire a una tragedia. E l'Arte ne è solo il mezzo.

Diego Altobelli (11/2010)

Il padre e lo straniero

Anno: 2010
Regia: Ricky Tognazzi

E’ tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo il nuovo film di Ricky Tognazzi che torna alla regia dopo "Canone Inverso" (2000) e "Io no" (2003). Ne "Il padre e lo straniero" troviamo il regista di "Vite strozzate" alle prese con una difficile (in tutti i sensi) storia di integrazione.

Diego (interpretato da Alessandro Gassman) è il padre del piccolo Giacomino, un bambino disabile con problemi motori. Durante una visita a un centro di riabilitazione, Diego conosce Walid, un arabo padre a sua volta di Yusef, un bambino nato con una grave malformazione. Tra i due nasce una profonda amicizia che li porterà a capire il vero significato della parola “diverso”…

Ancora una volta ci troviamo ad affermare una innegabile verità: scrivere un libro non equivale a scrivere un film. La sceneggiatura per un film è una cosa completamente diversa dalla stesura di un romanzo. Va detto questo perché chi scrive, a onor del vero, non ha letto il romanzo di De Cataldo da cui questo film è tratto, ma considerando che lo stesso De Cataldo ha curato soggetto e sceneggiatura, e visti i risultati, ci sentiamo di affermare (ancora una volta) che scrivere un libro e scrivere un film sono evidentemente due cose profondamente diverse. E chissà che un dubbio in merito, a qualcuno delle produzioni non venga.

In attesa della rivelazione tocca adeguarsi. Mettersi comodi, inspirare profondamente e prepararsi all’ennesimo “frullatone” di intenzioni tutto italiano. Ma lo ripetiamo, non è un problema di regia (Tognazzi dimostra in più occasioni di non essere uno sprovveduto), ma di sceneggiatura. Nello script, il bravo Alessandro Gassman si muove per tutto il film chiedendo cosa stia succedendo, e questo malgrado i dialoghi (improbabili) ci spieghino di continuo “chi è chi” e “perché”. La prima parte del film, poi, è una lunga spiegazione delle usanze arabe, interessantissimo in un documentario, ma un po’ ridondante in un “thriller”. Sì perché questo "Il padre e lo straniero" assume i connotati della spy story nella seconda, prolissa, parte, con tanto di passato nei servizi segreti e interrogatori portati da un poco convinto detective che risponde al nome del grande Leo Gullotta. Peccato, inoltre, che al fatidico “dunque” il film non spieghi la trama. Incredibile, ma vero. Non sapremo cosa sia effettivamente accaduto nel film!

Tralasciamo in questa sede, invece, di parlare dei “messaggi” più o meno velati che la regia di Ricky Tognazzi inserisce con grande modestia. In un momento ad esempio uno dei personaggi dice: “Ho la freccia rotta, allora girerò sempre a sinistra!”; in un altro, un prete, che dice cose sconvenienti nei confronti del bambino disabile, viene cacciato in malo modo. Insomma, ma perchè?

Quindi, "Il padre e lo straniero" è un film di buone intenzioni, ma che si perde in un labirinto di problemi formali che, oltretutto, finiscono per scontrarsi con dubbie motivazioni registiche. Potremmo dire: inaccettabile. Diciamo: improponibile.

Diego Altobelli (11/2010)